La produzione laterizia

Il diffondersi in età imperiale della tecnica costruttiva in opus latericium (paramento di malta e laterizi tagliati in triangoli) e quindi in opus mixtum (paramento di pietre e mattoni), comporta un maggior impiego di materiale laterizio cotto, utilizzato in stato frammentario già fin dal III secolo a.C., combinato con malta, frammenti di pietre e ciottoli a formare l’opus cementicium che costituisce il nucleo della struttura muraria stessa (41).

Dal I sec. a.C., in relazione all’incremento della produzione laterizia, compare l’uso di bollare tale materiale; si trattava di imprimere un marchio sulla superficie delle tegole e dei mattoni (più raramente dei coppi).

Il materiale laterizio bollato fa parte della categoria epigrafica dell’instrumentum domesticum.

Con il termine lateres, in età romana, si indicavano i mattoni crudi mentre il termine tegulae si riferiva sia alle tegole vere e proprie che ai mattoni cotti in fornace (42).

La fabbricazione dei mattoni consisteva nel porre l’argilla, precedentemente sgrassata con sabbia e paglia (43), entro stampi di legno cavi a formare parallelepipedi di varie misure: i bessales misuravano due terzi di piede (cm 19,7), i sesquipedales un piede e mezzo (cm 44,4) ed i bipedales due piedi (cm 59,2).

Le tegulae, utilizzate per le coperture ma reimpiegate spesso come materiale edilizio e in determinate tipologie di sepoltura, sono elementi piatti dello spessore massimo di cm 3,5-4 dall’impasto piuttosto depurato (44), provviste di alette ai lati lunghi; hanno forma rettangolare o trapezoidale e dimensioni che variano da regione a regione (dimensioni medie cm 41 x 57). Nella messa in opera della copertura le tegole vengono accostate l’una all’altra e sopra, nel punto di incontro delle alette, vengono appoggiati i coppi (imbrices) (45).

I laterizi, tolti dagli stampi, venivano poi posti ad essiccare all’aria e al sole in strutture semi-coperte (navalia).

Vitruvio sconsigliava di effettuare questo passaggio in estate poiché l’essiccazione sarebbe avvenuta in maniera troppo rapida e non uniforme (46).

L’essiccazione all’aria aperta è comprovata anche dai numerosi rinvenimenti di tegole e mattoni con su impresse orme di zampe di galline, cani ed altri animali (47).

Durante questa fase avveniva la bollatura dei laterizi.

I figuli, con ogni probabilità, imprimevano il marchio solo sui materiali che riuscivano a raggiungere, cioè quelli posti più esternamente, evitando nel tentativo di raggiungere quelli posti all’interno, di danneggiare, camminandoci sopra, i mattoni ancora umidi e molli; ecco perché solo una piccola percentuale dei mattoni risulta bollata.

L’esame delle peculiarità grafiche delle lettere impresse sui bolli non sempre consente di ipotizzare un’attendibile attribuzione cronologica del bollo stesso, questo perché intervengono talvolta fattori estranei a criteri paleografici, come le varie tecniche dell’intaglio ed il diverso stato di logoramento degli stampi (48).

I punzoni utilizzati per la bollatura erano in maggioranza di legno, forse di bosso che è una qualità di legno particolarmente resistente e utilizzato anche, come ricorda Columella (49), per la timbratura delle forme di formaggio.

Le matrici tuttavia si rompevano facilmente, sia per il continuo contatto con le pareti umide dei mattoni sia per la forte pressione esercitata su di esse; al momento della sostituzione veniva spesso modificato anche il testo: si cambiava qualche abbreviazione o interpunzione, si modificavano i simboli figurati (50).

Si è dedotto che gli stampi fossero per la maggior parte di legno perché non di rado sono visibili sul bollo le tracce lasciate dalle fibre lignee del punzone utilizzato e perché raramente sono stati recuperati dagli scavi archeologici punzoni di bronzo (51) o di altro materiale che trovino un riscontro certo sui bolli laterizi stessi così da poter dimostrare definitivamente il loro frequente utilizzo anche per la bollatura di questo tipo di instrumentum (52).

Il materiale laterizio essiccato veniva quindi cotto in fornace (53); essa solitamente era costituita da un prefurnio, un corridoio interrato nel quale veniva acceso il combustibile che veniva poi spinto nella camera di combustione; tale ambiente anch’esso parzialmente interrato in cui il combustibile bruciava, era separato dalla camera di cottura da un piano forato su cui veniva appoggiato il materiale da cuocere.

Per evitare dispersione di calore la fornace veniva chiusa da una volta forata composta da anfore o tubi fittili ricoperti di argilla o, in strutture meno complesse, da un graticciato provvisorio di legno isolato internamente ed esternamente con uno strato d’argilla (54).

Dopo la cottura, si procedeva talvolta al taglio dei laterizi stessi, utilizzando una sega o una martellina, così da ottenere elementi rettangolari e triangolari più piccoli e maggiormente adattabili in fase di costruzione. Utilizzando stampi appositi o tagliando i classici mattoni quadrati, si ricavavano anche elementi di forma circolare impiegati nelle colonne e nelle suspensurae (55) (colonnine che sostenevano i pavimenti, specialmente degli ambienti termali, permettendo il passaggio di aria calda), ed elementi di forma rettangolare messi in opera di taglio ed a spina di pesce (opus spicatum), o di forma esagonale (esagonette) per il rivestimento dei pavimenti di alcuni ambienti (56).

Si è ipotizzato che una stessa fornace venisse destinata sia alla cottura di ceramica che di laterizi, anche perché spesso i reperti rinvenuti non consentono di stabilirne un uso certo.

Tra le due tipologie di fornace è possibile, tuttavia, individuare alcune differenze. Nella fornace per laterizi, ad esempio, poteva mancare il piano forato perché i mattoni venivano impilati di taglio, lasciando un certo spazio tra di loro per consentire che l’aria calda salisse verso l’alto lambendo verticalmente la superficie dei mattoni e cuocendoli in maniera omogenea. I mattoni che poggiavano sul combustibile erano molto resistenti e fungevano essi stessi da piano di appoggio per gli altri mattoni che venivano impilati uno sull’altro fino a formare una catasta (o pignone) di forma tronco-piramidale o tronco-conica che veniva poi isolata termicamente grazie alla copertura di uno strato d’argilla (57).

Le fornaci potevano essere verticali o orizzontali; di queste ultime che, avendo un tiraggio regolabile e un maggior rendimento, erano tecnicamente le più adatte per la cottura dei laterizi, non risultano ritrovamenti in area italiana, al contrario delle più complesse fornaci verticali, assai comuni in epoca storica.

Le fornaci erano di solito collocate sia per questioni di sicurezza, cioè per allontanare il pericolo di incendi, sia per consentire un esclusivo utilizzo a fini residenziali dello spazio cittadino (58), al di fuori degli abitati, in prossimità di corsi d’acqua ed in genere non lontano da importanti vie di transito, per favorire il trasporto del materiale necessario alla produzione dei laterizi e, naturalmente del prodotto finito (59).

 


(41) Per una cronologia ed uno studio approfondito della tecnica edilizia romana si vedano Lugli 1957, pp. 553-573 e Adam 1989, pp. 111-157.

(42) Vitr., V 10, 2.

(43) Vitr., II 3, 1.

(44) Lugli 1957, p. 545.

(45) Adam 1989, pp. 229, 230.

(46) Vitr., II 3, 2.

(47) Lugli 1957, p. 557.

(48) Rebecchi 1983, p. 53.

(49) Colum., VII, 8, 7.

(50) Lugli 1957, p. 557.

(51) Timbri di questo materiale venivano comunque utilizzati per apporre il marchio su altro instrumentum domesticum come dolia o anfore; si veda Lugli 1957, pp. 556, 557.

(52) Un punzone fittile utilizzato per marcare le anfore è stato rinvenuto a Potenza Picena, si veda Mercando 1979, p. 275 e figg. 202, 203. Due stampi in marmo rinvenuti a Forlimpopoli e nel tortonese erano forse utilizzati per la bollatura dei laterizi, si vedano a riguardo rispettivamente: Rebecchi 1983, p. 53 e Antico Gallina 1983/84, pp. 261-265.  Un punzone di bronzo, probabilmente utilizzato per la bollatura di laterizi è stato rinvenuto a Castel Porpetto, si veda a riguardo: Zaccaria-Gomezel 2000, p. 291; un altro, sempre bronzeo, utilizzato per laterizi o anfore è stato rinvenuto ad Alba Fucens si veda: Effetto Alba Fucens 2002, pp. 47, 49 (scheda e foto n. 108).

(53) Per un quadro completo delle tipologie e delle problematiche relative alle fornaci in area italiana si veda Cuomo Di Caprio 1971/1972, pp. 361-464.

(54) Cuomo Di Caprio 1971/1972, pp. 401-404.

(55) Adam 1989, pp. 159, 160.

(56) Pignocchi 1998, p. 57.

(57) Cuomo Di Caprio 1971/1972, p. 378.

(58) Buchi 1979, p. 458; Mingazzini 1956/58, pp. 77-82.

(59) Adam 1989, p. 352.

 

 


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