
La vita
di S. Sperandia è narrata in
numerose fonti letterarie del XVII e del XVIII secolo che prendono spunto da un
manoscritto anonimo del XIV
secolo: la Vita latina. Questo manoscritto è diviso in due parti; nella prima viene
descritta la vita della santa, con la testimonianza di numerose visioni,
miracoli, penitenze e peregrinazioni; nella seconda sono contenuti
dodici atti notarili inerenti i miracoli compiuti da S.
Sperandia quasi subito dopo la sua morte, e precisamente negli anni
1277-1278. Sembra
appurato che Sperandia sia nata a Gubbio
intorno al 1216 d'honorata famiglia, et perché lo spirito del Signore spira dove
vuole, essendo ella d'età di nove anni le nacque nel core un
desiderio ardentissimo di servir a Dio, et altro pensiero non le
cadeva nell'animo, che di seguitar Giesù
Christo, et per poter meglio mettere in effetto quel che ardentemente desiderava, guidata dallo
Spirito Santo abbandonò tutti i beni terreni et di questo mondo
per guadagnar i beni del Cielo et la gloria del Paradiso, et
cominciò a fare aspra
penitenza. E benché fusse acerbamente
travagliata et tribulata da suo padre, madre e parenti che
cercavano rimuoverla dal suo santissimo pensiero, ella nondimeno
sopportava detti travagli et tribulationi con grandissima
patienza, perseverando giorno e notte in meditar et contemplar la
Passione de N. Signore Giesù Christo, in far oratione, in aiutar poveri,
et nel far altre opere di carità.
E
perché sapeva che quanto più si gastiga il corpo et si pon
freno ai sensi, tanto più facilmente l'anima s'inalza a Dio, et ella
per frenar i sensi, et per domar e gastigar il suo corpo, si vestiva
continuamente di pelle d'animale et si cingeva con cintura di
ferro.
Et per obbedir allo Spirito Santo che l'inspirava a discostarsi da suoi parenti et da ogni cosa terrena sprezzando il mondo et
se stessa, se ne andò in
peregrinaggio, nel quale
sostenne molti travagli, et essercitandosi continuamente in
digiuni et orationi era spesse volte travagliata dal demonio.
Essendosi rinchiusa di quadragesima in una picciola stanza
per spendere tutto quel tempo in digiuni et orationi, era tentata
per timor del corpo a partir di detta stanza; per vincere detta
tentatione et per poter perseverare nel suo santissimo proposito,
da se stessa si leggo strettamente ad una colonna, che ivi era.
Digiunando detta quadragesima in una spelonca,
permetteva il Signore ch'ella patisse molte tribulationi, le quali
sopportava con grandissima patienza contemplando sempre la passione
del N. Signore Giesù Christo, di buonissima voglia
abbracciando l'astinenza, la disciplina del corpo et la
povertà (1).
"Come molti suoi
contemporanei Sperandia sentì forte il fascino della predicazione
itinerante di Cristo, resa attuale da Francesco d'Assisi, e del
resto, numerosi elementi permettono di collegare la sua
spiritualità alle scelte del movimento francescano. La forma di
pietà nuova, di chiara ispirazione francescana, appare
in tutta la sua freschezza in una delle visioni più suggestive
avute da Sperandia, quella nella quale Gesù, toccando con una
mano la piaga dell'altra, le dice respice hic, et hec
reccomendo tibi. Che tra Sperandia e i francescani siano
intercorsi stretti rapporti è dimostrato dalla notizia
dell'invito che la santa rivolge ad una donna a recarsi ad
fratres minores per fare penitenza. Perciò era verosimilmente
francescano frate Leonardo, il quale annotò almeno un miracolo
compiuto da Sperandia e a cui pensiamo come suo confessore e
autore delle singole annotazioni che costituiscono la Vita"
(2). La
vita itinerante della santa, che si spostava continuamente fra l'Umbria e le
Marche, è ben documentata; la sua presenza viene ricordata a Cagli, Fabriano, Recanati, Gubbio, Fossato di Vico, Spoleto.
Forse la santa fu anche a
Venezia, dove un suo devoto, infermo, ottenne da lei la guarigione
implorata. La tradizione vuole inoltre che S. Sperandia, secondo
una pratica abituale a quei tempi, fu
pellegrina anche in Terra Santa e che portò con sé molte
reliquie, conservate in gran parte nell'urna stessa della santa. Più sospetta è invece la
vicenda relativa
agli stivaletti di S. Sperandia. Se è vero che durante i suoi
pellegrinaggi la santa giunse anche a Roma è alquanto dubbiosa la
storia che ci viene tramandata. Lì Sperandia avrebbe incontrato il Papa il quale, vedendola
scalza e con i piedi laceri, le
avrebbe donato degli stivaletti, uno dei quali ancora oggi si
conserva nella stanza che fu della santa. La
tradizione afferma che S. Sperandia, dopo
lunghe peregrinazioni, si ritirò negli ultimi anni della sua vita
a Cingoli, prima penitente in una
grotta del Monte Acuto,
poi vestendo l'abito benedettino presso il monastero di S.
Michele. A motivo della sua santità venne poi eletta badessa
nello stesso monastero, riunendo in un'unica comunità anche le
monache del vicino monastero di S. Marco
(3).
Questi fatti però non sono confermati dai documenti disponibili:
non esistono, infatti, prove dell'esistenza di un monastero di S.
Michele e che S. Sperandia sia stata badessa di detto
monastero. Dall'analisi architettonica del monastero attuale
risulta comunque certo che durante la metà del XIII secolo
esistevano due strutture giustapposte: una, datata intorno al XII
secolo, formato da un'unità abitativa quasi sicuramente unita ad
una chiesa, ed un'altra presumibilmente del XIII secolo
(4). L'esistenza
di una chiesa dedicata a S. Michele, la cui ubicazione resta
tuttavia incerta (5), viene invece ricordata
fin dal XII secolo. Un documento del 1186 menziona infatti la
chiesa di S. Michele in un atto di conferma di
beni al priore della chiesa di S. Salvatore in Colle Bianco
(6). Un altro documento del 1235
ricorda una donazione in favore delle monache di Colle Luce che
viene stipulata in foro pubblico Sancti Michaelis in platea
Sancti Laurentii (7). Sia la Vita latina che
le altre fonti storiche, come ad esempio gli statuti comunali, ricordano
sempre un Monastero o una chiesa di S. Sperandia e di S. Marco,
mai di S. Michele. Il primo scritto nel quale compare il nome di
S. Michele, quale titolare della chiesa, risale solo al 15 agosto
1482: alma Ecclesia Monasterii Sancti Michaelis, nunc Sanctae
Sperandeae nuncupata extra muros Cinguli
(8).
Secondo il Santarelli il titolo di S. Michele si introdusse
"quando l'Oratorio in cui fu sepolto e poi esposto nell'arca il
corpo della santa, per la frequenza dei fedeli, si trasformò in
luogo pubblico e quindi in Chiesa, alla quale era necessario
dare un titolare. Fu scelto probabilmente S. Michele arcangelo
perché era tutelare dell'Ordine camaldolese, al quale, secondo
due chiare testimonianze scritte e alcuni attenti studiosi, come
il Sarti e il Raffaelli, appartenne S. Sperandia e, in origine,
il suo Monastero" (9). Dai
documenti disponibili è possibile quindi sostenere che fin dal
XII secolo erano presenti strutture abitative ed una chiesa
nel luogo dove oggi sorge il monastero di S. Sperandia; che la
presenza di una chiesa dedicata a S. Michele è attestata in
curte cingulana fin dal XII secolo; che le fonti antiche non
riportano alcuna notizia riferita alla presenza di S. Sperandia in
un monastero di S. Michele. La carenza di documenti non
consente quindi di suffragare le informazioni della Vita latina
ma permette soltanto di fare della generiche supposizioni sul
monastero e sugli ultimi anni di vita della santa. Il
Santarelli pensa che la vita di S. Sperandia "vada
letta e spiegata all'interno del vasto movimento del beghinismo
femminile, che nel secolo XIII interessò tutta l'Europa e, in
specie, l'Italia centrale. Si trattava di piissime donne, dedite
alla preghiera e alle opere di misericordia verso i bisognosi e i
sofferenti, le quali, a un certo momento, dopo aver peregrinato
anche isolatamente, si riunivano in comunità religiose, assumendo
la Regola di uno degli Ordini monastici femminili"
(10). In un documento della Vita
latina del 16 ottobre 1278 si legge che S. Sperandia aveva fatto
penitenza in particolari abitazioni, con portico di legno a pian
terreno e coperto con un tetto (trasanna), nelle quali
visse insieme ad alcune donne: Actum
est Cinguli in transanna domus mulierum comorantium in loco et
domibus ubi fecerat penitentiam venerabilis mulier soror Spera in
Deo (11).
E' probabile quindi, in accordo con il Santarelli
(12),
che S. Sperandia visse in un primo momento in povere abitazioni (domus)
insieme con alcune sue seguaci, donne (mulieres) e non
monache; poi, in un secondo momento, accettata la Regola di S.
Benedetto delle vicine religiose di S. Marco, Sperandia trasformò
tali abitazioni in un monastero, come parrebbe dimostrare anche un
documento della Vita
latina del 12 ottobre 1278: in oratorio dominarum
loci sororis Spere in Deo
(13).
In questo documento si cita infatti un "oratorio delle
monache del luogo di S. Sperandia": un monastero abitato da
monache (dominae) e non più semplicemente donne (mulieres). Secondo
la ricostruzione del Franceschini, basata sullo studio dei
documenti citati nella Vita latina, S. Sperandia morì l'11 Settembre
1276 ed il suo corpo ebbe inizialmente una generica sepoltura
in un luogo basso et humido, e poi, probabilmente con il
crescere della devozione, fu
collocato in un'arca di legno di noce. "L'arca, secondo la
tradizione sfumante in leggenda, sarebbe stata costruita da un
certo Mastro Lorenzo da Villa Torre, falegname, il
quale pregato in sogno per due volte dalla santa di costruire
un'arca di legno per il suo venerabile corpo, non se la dava per
intesa, finchè una notte S. Sperandia, in una nuova apparizione,
non gli assestò un sonoro manrovescio sul viso, lasciandoglici il
segno per tutta la vita e persuandendolo a costruirle un'arca
ampia e decorosa" (14). La
venerazione verso la santa iniziò quasi subito dopo la sua morte.
Come si legge nella Vita latina, se nel 1277
viene definita con il semplice titolo di soror (suora),
già dal 1278 comincia a ricevere l'appellativo di "santa" o
"venerabile". L'inizio del suo culto si può quindi fissare al 1278
anche perché in tale anno il suo corpo venne esposto alla
pubblica venerazione nell'arca di legno. Negli
statuti comunali del XIV secolo a Sperandia le si attribuisce
abitualmente il titolo di santa. Nello statuto del 23 luglio 1325
(rubrica V De Sacro Corpore Sanctae Sperandeae) si parla del sacro corpo di
santa Sperandia che deve essere custodito dal Comune di
Cingoli, insieme al luogo della sua sepoltura, in ossequio a un testamento della
santa stessa:
Item statuimus et ordinamus quod Sacrum Corpus Sperandeae et
locum ibi dictum Corpus positum est custodiatur et defendatur per
Commune Cinguli secundum modum et tenorem Testamenti ipsius
Sorosis Sperandeae, sicut conveniens et decens est, et quod nulla
abominabilis seu despecta Persona habitet vel moram habet prope
dictum locum"
(15).
Analoga citazione si ha nello statuto del 1364, nel quale si parla
di "monache del monastero di S. Marco e di S. Sperandia: Monialibus
Monasterii S. Marci et Sanctae Sperandeae quinque libras
denariorum (16). Altre testimonianze
dello stesso periodo, pubblicate dall'erudito cingolano Francesco
Maria Raffaelli (17),
confermano il titolo attribuito a Sperandia; in un documento del
1363 si dice che Sororem Nicolutiam Lipputii de Cingulo,
monialem Monasterii S. Marci e S. Sperandeae chieda e ottenga
di passare al monastero di S. Caterina mentre in un altro del 1387
si legge ancora dei monasteriis monalium S. Marci et S.
Sperandeae.
Nel già citato documento del 15 agosto del 1482
(18)
viene ricordata la visita del Vescovo Luca di Osimo alla "chiesa
e monastero di S. Michele, ora chiamata di S. Sperandia, fuori
delle mura di Cingoli" che conserva numerose "reliquie fra cui
il corpo intero della Beata Sperandia". Un
momento importante del culto di S. Sperandia fu il 17 ottobre del
1497 quando, alla presenza del Vescovo di Osimo Mons. Paris, ebbe
luogo la solenne ricognizione del corpo della santa "il quale
fu mondato dalla polvere e da altro, perchè non subisse nocumento
alcuno e, quindi, rivestito di un nuovo abito di seta, in
sostituzione del precedente consumato dalla tignola, fu
ricollocato nella robusta arca di legno"
(19).
Non
bisogna inoltre dimenticare la data del 20 giugno del 1520 quando per istanza del cingolano Mons. Giovanni Pietro Simonetti,
sottoscritta da 15 cardinali, fu ottenuta un'indulgenza perpetua
di cento giorni in favore di coloro che, in alcuni giorni
particolari, avessero visitato la chiesa dove "per i meriti e
l'intercessione di S. Sperandia molti infermi ricuperano
l'invocata salute" (20). Il
culto e la devozione popolare nei confronti di S. Sperandia
raggiunsero l'apice il 22 febbraio 1560 con la consacrazione della
Chiesa sotto i titoli di S. Michele e di S. Sperandia ad
opera del cingolano Egidio Falcetta, Vescovo di Caorle. Risale
al 1625 la decisione di papa Urbano VIII di procedere alla regolamentazione del culto dei beati e dei santi, determinando che solo
le persone beatificate o canonizzate dalla Sede Apostolica
potevano essere oggetto di culto. Tale decisione ebbe
inevitabilmente dei riflessi anche sul culto di S. Sperandia;
sorse infatti una vivace polemica intorno alla legittimità del
suo culto, una polemica che si intrecciò con la storia della
realizzazione del sarcofago marmoreo della santa.
A tal proposito
il Santarelli (21) ricorda che "nel 1633
il cingolano Annibale Ricca decise di costruire una sontuosa urna
marmorea per il corpo incorrotto di S. Sperandia e da Verona, dove
risiedeva, fece spedire a Cingoli dei marmi pregevoli, già
lavorati da esperti scalpellini e pronti per la messa in opera. La
Madre Abbadessa del Monastero richiese il permesso per la
esecuzione del progetto al Cardinale Agostino Galamini, Vescovo di
Osimo. Ma egli, angustiato dal decreto di Urbano VIII, rispose che
per la licenza, la quale da me richiedono, ricorrano a Sua
Santità per ricevere i
certissimi suoi, e santissimi ordini di quello che dovrà farsi a tal particolare
(22). In sostanza il
Cardinale non era propenso a riconoscere legittimo il culto
prestato a S. Sperandia. Infatti dopo un anno di attesa e di
silenzio, il Magistrato di Cingoli si rivolse a lui per ottenere
il permesso di celebrare la festa della santa. Egli non solo
rifiutò il consenso, ma inviò il suo Vicario Generale di Osimo a
Cingoli con l'ordine preciso di far murare i marmi del sarcofago
dietro l'altare maggiore e di spogliare le pareti della Cappella
della santa di tutte le tabelle votive. Ma le monache, opponendosi
a tale decisione, dissero chiaramente al Vicario che mai avrebbero
acconsentito a nessuna risoluzione che fosse stata contraria alla
venerazione e al culto della santa. Alcuni mesi dopo il Cardinale
Galamini rimetteva la questione del culto di S. Sperandia nelle
mani della santa Sede con una lettera nella quale scriveva che i
Cingolani pretendono di custodire il corpo di S. Sperandia,
celebrandone la festa, quantunque non risulti né la sua
canonizzazione o beatificazione, né la licenza da parte della
Sede apostolica di celebrarne la festa
(23).
La questione passò
alla competenza della S. Congregazione dei riti che, in due sedute
successive del 17 e 18 marzo 1635 difese il culto di S. Sperandia
ed elesse due esperti per la raccolta dei relativi documenti
storici, i quali risultarono chiari e inoppugnabili a favore del
detto culto. Sicchè la S. Sede, il 22 agosto 1635
(24), rispose al Cardinal Galamini
che in materia si compiacesse di fare osservare
puntualissimamente il solito finchè non risultassero più precise
determinazioni. Superate queste difficoltà, passò ancora
qualche anno prima che da Verona fossero fatti venire gli
scalpellini a comporre il sarcofago. L'opera, infatti, fu
terminata solo il 9 dicembre 1639, dopo una solenne esposizione
del corpo della santa (25),
che apparve illeso di pelle, carni e membri, non altrimenti che
fosse morto di fresco ed emanante un molto soave odore e
fragranza (26). Esso fu riposto
nel nuovo sarcofago mentre l'arca lignea del 1278, debitamente
scomposta e accorciata, fu collocata nel retro dello stesso. Una
iscrizione alla sommità del sarcofago ricorda l'evento, con la
data di inizio e non di conclusione dei lavori: 1633". Il riconoscimento della santità
di Sperandia poggiò non tanto sulle sue opere esemplari e
mortificazioni ma quasi unicamente sulla fama dei miracoli
(27). "E così Sperandia per la devozione e l'ammirazione che
suscitava nel popolo entrò nella venerazione ufficiale della
Chiesa. Ma non si trattò di una vera e propria canonizzazione ma
di un riconoscimento circoscritto alla chiesa locale, con un
decreto vescovile, andato perduto, che, per sua stessa natura,
riguardava unicamente la diocesi osimana (...) Come hanno già
fatto notare i Bollandisti, Sperandia è stata sempre insignita
del titolo di santa, nonostante che per Sperandia non fossero
stati celebrati processi giudiziali, solennità esterne, sentenza
formale e definitiva. Anche per la santa cingolana valgono le
parole del P. L. Hertling: Urbano VIII con i suoi decreti
vietò da una parte ogni culto relativo a coloro che non erano
stati beatificati dal Papa, però dall'altra parte attribuì ai
suddetti culti fino ad allora esistenti, un valore giuridico
retroattivo. Infatti con quei decreti fu riconosciuto l'antico
culto di quei Servi di Dio, ed essi in tal modo furono elevati,
senza formale canonizzazione, alla dignità di coloro che in
seguito sarebbero stati espressamente canonizzati dal Papa.
Così ancora una volta i Bollandisti, con tutta la loro
competenza, avevano affermato che a Sperandia spettava de jure
il titolo di santa per cui si può ritener legittimo il culto a
lei tributato e, a tutti gli effetti, per le regole in vigore nel
medioevo, Sperandia può essere ritenuta santa e additata
alla imitazione ed alla venerazione dei fedeli"
(28).
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Particolare
del dipinto di Pier Simone Fanelli. Miracolo delle ciliege, 1683.
Chiesa di S. Sperandia - Cingoli (da G. Santarelli, Santa
Sperandia, copertina) |
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Incisione
contenuta nella biografia di Giovanni Girolamo Frezza, 1732 (da G. Santarelli, Santa
Sperandia, p. 18) |
(1)
La Vita de Santa Sperandina
- Roma, Biblioteca Alessandrina, ms. 99, p. 3a, ff. 850r-857v in M.
Paggiossi, Santa Sperandia. Testo e
fortuna dell'<Antica Vita Latina>,
Edizioni di Studia Picena, Ancona 2001, pp. 75-76
(2)
M.
Paggiossi, Immaginario agiografico e realtà quotidiana della
"vita" di S. Sperandia, in G. Avarucci (a cura di), Santità
femminile nel duecento. Sperandia patrona di Cingoli, Ancona
2001, pp. 223-224
(3)
T. Franceschini, Istoria della vita della gloriosa S. Sperandia,
Fermo 1602. Il Franceschini fu il primo erudito che scrisse una
biografia di S. Sperandia attingendo sia alle informazioni
contenute nella Vita latina e sia alla tradizione orale
delle monache e degli abitanti di Cingoli a lui contemporanei
(4)
N.
Monelli, Le strutture antiche del monastero di Santa Sperandia
di Cingoli, in G. Avarucci (a cura di), Santità
femminile nel duecento. Sperandia patrona di Cingoli, cit., pp.
352-360
(5)
Bernardi colloca questa
chiesa presso Borgo San Lorenzo, S. Bernardi, Monasteri
femminili in Cingoli (sec. XIII-XIV), in G. Avarucci (a cura di), Santità
femminile nel duecento. Sperandia patrona di Cingoli, cit., p. 341, nota
n.84
(6)
S. Bernardi, Monasteri femminili in Cingoli (sec. XIII-XIV),
cit., p. 341
(7)
S. Bernardi, Monasteri
femminili in Cingoli (sec. XIII-XIV), cit., p. 341
(8)
T. Franceschini, Istoria della vita della gloriosa S. Sperandia,
cit., pp. 87-91
(9)
G.
Santarelli, Culto, chiesa e monastero di Santa Sperandia -
Cingoli, in AA.VV., Celebrazione VII Centenario della morte
di Santa Sperandia, Cingoli 1976, p. 88
(10)
G.
Santarelli, Culto, chiesa e monastero di Santa Sperandia -
Cingoli, cit., p. 85
(11)
Vita latina, Macerata,
Archivio di Stato, ms. 711, ff. 1r-6r, in M. Paggiossi, Santa Sperandia. Testo e
fortuna dell'<Antica Vita Latina>, cit., p.
52
(12)
G.
Santarelli, Culto, chiesa e monastero di Santa Sperandia -
Cingoli,cit., p. 86
(13)
Vita latina, Macerata,
Archivio di Stato, ms. 711, ff. 1r-6r, in M. Paggiossi, Santa Sperandia. Testo e
fortuna dell'<Antica Vita Latina>,
Edizioni di Studia Picena, Ancona 2001, pp. 50-51
(14)
G.
Santarelli, Culto, chiesa e monastero di Santa Sperandia -
Cingoli, cit.6, p. 86
(15)
F.
A. Cavallini, Istoria della Vita di S. Sperandia Vergine
dell'Ordine benedettino, Fermo 1752, pp. 71-72
(16)
F. A. Cavallini, Istoria
della Vita di S. Sperandia Vergine dell'Ordine benedettino,
cit., pp. 73-74
(17)
F. M. Raffaelli, Dissertazione
intorno a S. Sperandia Vergine egubina del Monastero di S. Michele
da essa in Cingoli costruito e dell'unitogli Monastero di S. Marco
in A. Calogerà, Nuova raccolta d'opuscoli scientifici e
filologici, Venezia 1776, tomo XXIX, pp. 14-16
(18)
Allo stesso anno risale anche la
realizzazione della prima immagine attestata della santa. La più
antica documentazione bibliografica riguardante le immagini la
fornisce una versione della
Vita curata dalle monache di S. Sperandia e dedicata al
vescovo di Osimo e Cingoli Ferdinando Agostino Bernabei,
pubblicata
a Roma nel 1732. Il
volume, che attinge a fonti più antiche, dedica il capitolo XIV
alle Prove del culto immemorabile di Santa Sperandia. Notizie
sulle reliquie, venerazioni varie e descrive il dipinto sul
muro di una casa, di proprietà di
tal Giuseppe Lorenzini,
di "Villa,
detta la Torre dove è dipinta l'immagine della Beatissima Vergine
in mezzo, e da un lato quella di Santa Sperandia vestita
dell'abito di San Benedetto colla cocolla, velo, e diadema, e
sopra la sua testa si vede scritto: Santa Sperandia MCCCCLXXXII".
Questa versione della Vita di S. Sperandia accenna anche a
due dipinti di Gubbio. Uno era situato in una chiesa indicata come
"discosta da Gubbio quanto è un tiro di balestra",
senza ulteriori indicazioni, ed è descritto come un dipinto
murale raffigurante la Madonna tra sant'Antonio e il Beato
Sperandio "coll'abito de' Monaci Olivetani", a destra, e
sant'Ubaldo e la Beata Sperandia "coll'abito monacale, e
Diadema in testa, come hanno gli altri santi", sulla
sinistra. Al di sotto la scritta "Qui fu l'abitazione de i
Beati Sperandio, Gianuaria, e Sperandia, oggi protettrice di
Cingoli". L'altro dipinto è ricordato nella chiesa dei Padri
Predicatori dove l'altare del Rosario è ornato da due grandi
quadri recanti, a destra, l'immagine di santa Caterina, a
sinistra, "una Santa coll'abito di San Benedetto, la quale da
tutto il popolo è tenuta e venerata per santa Sperandia", B.
Montevecchi, Iconografia di Santa Sperandia, in
G. Avarucci (a cura di), Santità
femminile nel duecento. Sperandia patrona di Cingoli, cit.,
pp. 387-388
(19)
G.
Santarelli, Culto, chiesa e monastero di Santa Sperandia -
Cingoli, cit., p. 90
(20)
F. A. Cavallini, Istoria
della Vita di S. Sperandia Vergine dell'Ordine benedettino,
cit., pp. 93-95
(21)
G.
Santarelli, Culto, chiesa e monastero di Santa Sperandia -
Cingoli, cit., pp. 91-92
(22)
S. Corradini, Venerazione popolare e culto liturgico di S.
Sperandia, in G. Avarucci (a cura di), Santità
femminile nel duecento. Sperandia patrona di Cingoli, cit., pp.
262-263
(23)
F. A. Cavallini, Istoria
della Vita di S. Sperandia Vergine dell'Ordine benedettino,
cit., p. 115
(24)
In realtà, la
risposta dei cardinali Pio, Cesarini e Barberini, riuniti in
Congregazione, si ebbe in data 11 agosto, S. Corradini, Venerazione popolare e culto liturgico di S.
Sperandia, cit., p. 263
(25)
Altre
ricognizioni del corpo di S. Sperandia, custodito nella Chiesa di S.
Sperandia, ebbero luogo nel 1768, nel
1834, nel 1870 e nel 1926: in tutte le occasioni il corpo fu
rinvenuto incorrotto e flessibile, talvolta perfino emanante un
misterioso profumo
(26)
Il
fatto fu descritto in un documento del 14 gennaio 1642 dal notaio
Filippo Frosi seniore, riprodotto in originale latino e in
traduzione italiana dal Cavallini, F. A. Cavallini, Istoria
della Vita di S. Sperandia Vergine dell'Ordine benedettino,
cit., pp. 124-129
(27)
Sperandia
non fu mai inserita nel martirologio Romano, pubblicato nel 1584.
Riguardo al problema, già sollevato nel corso del XVII secolo, se
l'iscrizione al martirologio implicasse l'estensione del culto
alla chiesa universale è bene ricordare che nel tempo vennero
emanate precise norme che ne regolavano appunto l'iscrizione. Un
decreto della Congregazione dei Riti del 30 luglio 1616,
confermato il 30 agosto 1680, limitava l'iscrizione nel
martirologio ai soli santi canonizzati. Secondo quanto sostenuto
dal Cardinale Prospero Lambertini, futuro papa Benedetto XIV,
nella sua opera De servorum Dei beatificatione et de beatorum
canonizatione
pubblicata fra il 1734 ed il 1738, opininione divenuta poi
dominante, l'inserzione non equivale al riconoscimento ufficiale
del culto dei santi, ma rappresenta solo una testimonianza per
ricordare la loro festa ed il loro culto.
(28)
S. Corradini, Venerazione popolare e culto liturgico di S.
Sperandia, cit., pp. 261, 267
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Monastero
di S. Sperandia, particolari
della camera di S.
Sperandia. All'interno
della teca: "Uno dei stivaletti che il Papa (forse
Innocenzo IV) donò alla Santa per alleggerire l'asprezza
delle sue peregrinazioni"(foto del 10/9/2009)
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L'antica
Vita latina
Anche
nel caso di Sperandia, come, del resto, per molte delle mulieres
sanctae del suo tempo, la memoria popolare è stata oltre modo
generosa nel tramandare episodi suggestivi ed eventi straordinari
che avrebbero avuto come protagonista la Santa, ma gli unici dati
attendibili sulla sua vita e sulla sua spiritualità sono
contenuti nella cosiddetta <antica Vita latina>, scritta,
forse, mentre Sperandia stessa viveva e così denominata dal
Cavallini per distinguerla da una successiva redazione della fine
del Cinquecento o dell'inizio del secolo successivo. Della vita di
S. Sperandia ci sono pervenuti quattro manoscritti che
testimoniano tre redazioni latine e uno di essi anche una
redazione in volgare. In ciascuna di tali redazioni il testo della
Vita è seguito da 12 atti notarili, che attestano i
miracoli da lei compiuti in morte. Le redazioni latine, e i
rispettivi manoscritti, sono:
A:
in ACCi ms 711 dell'Archivio di Stato di Macerata, ff. 1r-3v e
3v-6r: è l'<antica Vita latina>. Il testo di questa
redazione, largamente utilizzato da Tito Franceschini nella sua
monografia sulla Santa (T. Franceschini, Istoria della Vita
della gloriosa Santa Sperandia protettrice di Cingoli, Fermo
1602, ristampato in F. Cavallini, Istoria della Vita di S.
Sperandia Vergine dell'Ordine Benedettino, protettrice della
città di Cingoli, divisa in tre parti, Fermo 1752) è stato
pubblicato tre volte: nel 1752 da un devoto di Sperandia il quale
ha pubblicato la sua opera in forma anonima, ma che, come ha
rivelato Filippo Vecchietti, altri non è che l'erudito cingolano
Francesco Antonio Cavallini; nel 1755 dall'abate Mauro Sarti nel De
civitate et ecclesia eugubina; infine nel 1934 da don Mario
Bernardi in un articolo apparso nel X volume di Studia Picena. Il
manoscritto pergamenaceo, dei primi decenni del sec. XIV, misura mm
210x150 e consta di ff. 6 numerati di recente a matita, inseriti
in un bifolio parimenti in pergamena che funge da copertina.
Allestito per la trascrizione della Vita di S. Sperandia e
dei relativi atti notarili (ff. 1r-6r), vi furono poi aggiunti la
relazione sulla ricognizione del corpo della Santa scritta dal
notaio Felices (così) Marini de Cingulo, datata 17
ottobre 1497 e, al recto del foglio posteriore della
copertina, il ricordo della consacrazione della chiesa di S.
Sperandia, avvenuta il 22 febbraio 1560, e scritto qui dal Dominus
Constantius de Sax(oferra)to Cappellanus.
B:
nel Cod. 99 della Biblioteca Alessandrina di Roma, ff. 858r-861v e
861v-864r e in Collectanea della Biblioteca dei Bollandisti
di Bruxelless, ff. 97r-99v e 99v-102r. Già il Cavallini notava
che questo redazione deriva in tutto da quella precedente ma
<variato in molte parti, e fatto con metodo, e frase diversa, e
moderna ne tempi del nostro Franceschini, e perciò di nessun
preggio>. In effetti, non solo B si interrompe come A dopo il
miracolo della restituzione della vista agli assalitori della
Santa, ma, per quanto in maniera incompleta, presenta i medesimi
contenuti di A, esposti sostanzialmente nello stesso ordine. Che
poi B risalga ai tempi di Franceschini, è ragionevole illazione
del Cavallini e si spiega, perchè il Franceschini stesso menziona
un testo latino della Vita della Santa diverso da A,
eseguito, come par di capire, ai suoi tempi o in epoca di poco
precedente, e nel quale, come egli scrive e realmente avviene,
mancano numerosi passi di A; e giustamente precisa che tali
omissioni si verificano per lo più in corrispondenza di luoghi in
cui il codice di A è del tutto (o quasi del tutto) illeggibile.
Il codice è un manoscritto cartaceo dei secc. XVI-XVII per lo
più di circa mm. 300x200 noto come D. Constantini Caietani
Miscellanea Sacra, Tom. III. Ai ff. 850r-857v, della Vita
di s. Sperandia è conservata anche una redazione in volgare che
corrisponde in tutto alla redazione B.
C:
in Collectanea 141 della Biblioteca dei Bollandisti di
Bruxelles, ff. 123r-126r e 126r-128v. Il testo di questa
redazione, anch'esso pervenuto ai Bollandisti in data imprecisata,
è una riscrittura maggiormente corretta di B. Il p. Bollandista
riferisce, infatti, di avere sottomano due manoscritti della Vita
di s. Sperandia, entrambi provenienti da Cingoli; uno, il cui
testo è in uno stile corretto, probabilmente ripulito in epoca
recente, provvisto di un prologo nel quale la santa è menzionata
come Sperandia (la relazione C), e un secondo che presenta un
testo più antico e meno corretto del primo, privo del prologo, e
nel quale la santa è indicata con il nome Spera in Deo (la
redazione B). Poichè in questa redazione compaiono alcune
espressioni maggiormente elaborate o più complete rispetto a B si
può ragionevolmente presumere che C derivi da B (l'autore di C
avrebbe trascritto B apportandovi miglioramenti formali).
La
redazione A, che è fonte, come si è visto, di
quelle successive non è in realtà uno scritto
biografico bensì una serie di annotazioni,
staccate le une dalle altre, per lo più
introdotte con Item. Agli inizi del
Seicento, Tito Franceschini aveva avanzato
l'ipotesi che esso rappresenti il testamento della
Santa esplicitamente menzionato nel primo libro
degli statuti di Cingoli. Il Cavallini ha pensato
invece ad excerpta da un <processo>,
come gli scrive, istruito dal vescovo della
diocesi per informare della santità di Sperandia
papa Niccolò III, ed ottenere così il benestare
per l'elevazione del corpo di lei onde esporlo
alla venerazione dei fedeli. L'ipotesi del
<processo> è suggestiva, ma occorre
rilevare che dagli atti notarili traditi di
seguito a questi excerpta risulta che negli
anni 1277-1278 la sepoltura della Santa era già
conclamato luogo di culto e che, in particolare,
l'11 settembre 1278 un miracolo si compì ante
arcam dicte sororis Spere in Deo. Poichè la
Santa morì nel 1276, sembrerebbe singolare che la
concessione dell'elevatio da parte della
Santa Sede e l'elevatio stessa delle
spoglie mortali della Santa nell'arca abbiano
avuto luogo in così breve torno di tempo; è
probabile che l'elevatio sia stata decisa
dal vescovo.
Ma
non è detto che la natura del nostro testo, un
insieme di note accostate l'una all'altra senza un
criterio evidente, debba spiegarsi come una serie
di excerpta. Il Vecchietti (F.
Vecchietti in P. Compagnoni, Memorie
istorico-critiche della Chiesa e de' vescovi di
Osimo ed illustrate da Monsignor Pompeo
Compagnoni, vescovo di detta Chiesa, opera
postuma, continuata e supplita con note e
dissertazioni da F. V., II, Roma 1782)
ha pensato, invece, ad una serie di appunti che
qualcuno, probabilmente il confessore della Santa,
era andato via via prendendo su di lei,
specialmente sui suoi miracoli e sulle sue
visioni. Si legge infatti nella Vita che
una donna di nome Bianca, guarita da paresi
facciale che le aveva deturpato il volto, retulit
fratri Leonardi, qui hoc miraculum scripsit.
E'
naturale pensare che proprio tale frate Leonardo,
probabilmente il confessore della Santa, abbia
registrato anche gli altri miracoli e, ancora lui,
abbia preso nota delle visioni che lei gli
riferiva e delle quali, se così è stato, egli ha
riportato in qualche caso in forma diretta le
parole che le figure celesti le rivolgevano e
quelle che lei rivolgeva a loro. E il Vecchietti
era giustamente propenso a ritenere che frate
Leonardo o, con il suo aiuto, il confessore, se
era altra persona, intendesse poi scrivere una Vita
della Santa, ma per qualche oscuro motivo (il
Vecchietti sospettava la morte dell'autore)
l'opera non vide la luce. Non a caso, in questi
appunti non si dice nulla della morte di
Sperandia. Con questa ipotesi ben si accorderebbe
l'aspetto per così dire provvisorio, talvolta
quasi sconnesso del testo ed il suo latino
volgareggiante.
In
definitiva non sorprenderebbe che quando, subito
dopo la morte della Santa, si decise di chiedere
che il suo corpo fosse collocato in una possente
arca di noce o, se tale elevatio fu decisa
dal vescovo (cosa più probabile), quando si
pensò poi di chiedere la canonizzazione di
Sperandia, per documentare la santità si sia
fatto ricorso a tali appunti; ad essi si premise
l'invocazione In Dei nomine. Amen, che
conferisce un qualche carattere formale, forse si
completarono con una nota sulla giovinezza della
Santa e, verosimilmente, se ne scandì la serie
con l'introduzione degli Item. Dovendo
chiedere la canonizzazione, dopo il 1278, alla
cosiddetta Vita si fecero seguire gli atti
notarili che attestavano i miracoli post mortem.
Quanto
al nostro codice, ha già osservato il Cavallini
che esso è coevo degli statuti Cingolani del
primo Trecento, nei quali figura la prima
attestazione pubblica del culto cittadino
tributato a s. Sperandia. Che allora si sia anche
pensato di rinnovare la richiesta di
canonizzazione è ipotesi improbabile, non solo
perchè della pratica non è rimasta traccia, ma
soprattutto perchè i soli miracoli di cui si
aveva documentazione risalivano a circa mezzo
secolo addietro.
Tratto
da: M. Paggiossi, Santa Sperandia. Testo e
fortuna dell'<Antica Vita Latina>,
Edizioni di Studia Picena, Ancona 2001, pp. 13-28
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Monastero
di S. Sperandia, dipinto su tela, Morte di S. Sperandia
(fine sec. XVI) (foto del 10/9/2009) |
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Grotta
di S. Sperandia, con la piccola chiesa costruita nel 1840 (foto
del 4/5/2014) |
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Grotta
di S. Sperandia, interno adibito a luogo di culto e
preghiera (foto del 4/5/2014) |
LA
GROTTA DI S. SPERANDIA
descritta
dal
Commend.
Severino
Conte
Servanzi-Collio
Cavaliere
di Malta
CAMERINO
Tipografia
di G. Borgarelli
1876
Quando
appresi che si erano annunziate solenni feste per
celebrare nel vicino mese di Settembre la sesta
centenaria ricorrenza dalla morte di Santa
SPERANDIA, mi proposi anch'io di esternare in
questa avventurosa circostanza la molta mia
compiacenza con qualche pubblica dimostrazione.
Mi
sovvenne di avere dettato, e messa alle stampe
sino dall'anno 1850 (1) la descrizione del bel
dipinto con la immagine della Santa appeso nella
cappella dove si rende a Lei venerazione, e fermai
il pensiero di trattare argomento di genere
consimile, raccogliendo ed illustrando quanti
altri oggetti di arte, si fossero in qualsiasi
modo alla Santa riferiti.
Venuto
in cognizione, che un chiaro, ed illustre patrizio
della città di Cingoli mirava in questa occasione
allo stesso lavoro abbandonai sul punto il mio
primo proposito, onde non defraudare gli eruditi
di una utile e gradevole lettura, che tale la mia
non sarebbe riuscita. Dubitai altresì, che
imprendendo a trattare argomènti, cui può
somministrare il luogo donde Essa volò al
Paradiso, e dove da sei secoli riscuote fervoroso
culto, avrei fatto cosa men grata agli eruditi
Cingolani, perchè sarei entrato nel loro campo.
Per
la qual cosa ho divisato tenermi ad un soggetto,
che mentre glorifica la Santa, torna pure ad onore
di Sanseverino mia terra natale.
Esso
è la descrizione della grotta, che fù
santificata dalle diurne e notturne orazioni, dai
digiuni, dalle flagellazioni, (e forse dal vivo
sangue) di questa Eroina.
E
scelsi quest'argomento anche perchè si volle da
alcuni asserire trovarsi il monte di Citona (nel
cui seno è scavata la grotta) nel territorio di
Spoleto, mentre stà in uno dei più alpestri
monti del territorio di Sanseverino, precisamente
dentro il raggio della parrocchia del Castello di
Serralta.
Sarà
cosa da nulla pari al mio ingegno, ma varrà ad
appagare la pietosa curiosità dei devoti meno
istruiti.
E
per ampliare questo mio assunto, credo opportuno
dare un cenno di quello che fù, e di quanto fece
questa Santa nata in Gubbio, vissuta in diversi
eremi ed altrove pellegrinando, e finalmente in
Cingoli nel Monastero delle Benedettine, al quale
dopo la sua morte fù dato il nome, che tutt'ora
conserva di S. Sperandia.
Ne
parlerò di scorcio, perchè da vari autori fù
scritta la sua vita, una delle quali rimonta
all'anno 1400 circa, e perchè ritengo, che in
questa centenaria solennità altri ancora
imprenderanno a tesserla nuovamente, aggiungendovi
quei fatti e quelle circostanze taciute da
precedenti scrittori; o perchè avvenute di poi, o
perchè non furono a loro cognizione.
Non
dirò delle virtù della Beata ad una ad una, nè
delle sue penitenze, nè delle visioni, le quali a
giudizio di alcuni sembrano incredibili, e neppure
dei prodigi da Lei operati. Non conterò gli onori
e le oblazioni tributatele da private persone, e
da pubblici consorzi. Non ricorderò le cappelle,
le chiese, ed altri monumenti eretti, ed
improntati dal glorioso suo nome; ma toccherò i
fatti principali dalla sua venuta al mondo sino
alla dipartita.
E
dovendo, come dissi descrivere il monte, nel cui
seno è la grotta, e dir qualche parola anche di
questa, non sarà fuori di proposito far menzione
anche della piccola chiesa fabbricata
nell'apertura di essa.
Laonde
restringerò il mio tema a tre brevi capitoli, di
cui saranno soggetto.
La
descrizione della grotta di Citona nel primo.
Le
notizie da me raccolte intorno alla piccola chiesa
nel secondo.
E
nell'ultimo i cenni della vita della Santa.
Capitolo
I
La
Grotta di Citona
Chi
partendo da Sanseverino percorresse la strada Pia,
che conduce a Cingoli, dopo un cammino di miglia
otto troverebbe alla sua destra altra via, per cui
si va alla villa di Straccialena, traversata la
quale incomincia ad ascendersi per un sentiero
tortuoso, ineguale, malsicuro, giacchè scavato
tra le balze, e a ridosso di monti innalzantisi
gli uni sù gli altri. Superata l'erta faticosa e
malagevole per la lunghezza di miglia quattro
circa, si giunge finalmente sulla cresta del monte
più alto, ove la strada rispiana, e dove si
aprono un campo ben vasto messo a coltura, ed una
piccola prateria. Nell'opposto versante del monte
verso tramontana sporge, a guisa di sprone un gran
sasso nel cui seno è scavata la grotta, ma nessun
vestigio può additarne la via. In quella
solitudine di luogo, verrebbe meno l'animo al più
ardito ricercatore di avventurarsi a discendere
nella grotta stessa senza una scorta, giacchè
essendo in quella parte il monte tagliato a picco,
non si presenta altro alla vista che un profondo
burrone.
Io
vi discesi, ma non senza pericolo, ed ecco in qual
modo. Spintomi fin sul ciglio del monte mi avanzai
caminando sopra un mobile strato di scaglie di
pietra rossa, le quali ad ogni passo sospinto,
sdrucciolavano giù per il monte.
Mi
affidai però ad un robusto montanaro, il quale
esperto del luogo mi conduceva, e con l'una mano
mi rassicurava afferrandomi ad una spalla di lui,
e con l'altra stringevo una grossa fune, che fu
raccomandata alle radici di antica rovere. A mezzo
il monte, rasente lo scoglio si presenta una
piccola scala angusta e malsicura, rozzamente
incavata, la quale è così èrta, e tanto
inclinata, che sembra discendere quasi
perpendicolarmente dall'alto. Io procedeva col
sostegno della mia guida, e mentre ero con l'animo
rivolto e deciso a superare i pericoli, e le
difficoltà che mi si paravano innanzi, vidi
comparire inaspettatamente al destro lato la
ricercata grotta.
Un
piccolo ripiano vi serve come di pronao, ed una
piccola chiesa (di cui dirò più avanti)
s'innalza all'imboccatura di essa.
Si
presenta allo sguardo uno smisurato macigno, che
può dirsi di colore cenerognolo, e che ha molte
striscie, o liste pressochè perpendicolari ,
quali negre, quali rossastre, e quali gialle,
cagionate forse dalle acque filtranti a traverso
di minerali capaci a produrre quelle tinte. Quà e
là si vedono erbe sassifraghe, e parietarie,
l'edera, e qualche pianta rampicante, e a piè di
esso vegetano cespugli di quercia, d'elcio, di
ornello, di carpano e di spino. I monti che gli
sono vicini sono vestiti di piante consimili, non
che di ornello, di ginepro, acero, albuccio,
scotano, e di serpillo silvestre.
Vi
si veggono poi cavità di varie grandezze, dove si
ricoverano specialmente nella notte, e dove
formano i loro nidi i corvi, i calandrelli, o
falchi, ed anche le nottole, che vidi di una
grandezza non ordinaria.
Il
disegno qui unito ne darà una più chiara idea:
esso è per vero tracciato anzichè compiuto,
giacchè per un migliore effetto potevano ritrarsi
anche i circostanti monti, ma rinunziai a
quest'idea che mi si affacciò alla mente perchè
il mio proposito fù quello di presentare l'enorme
sasso, dove è la grotta della nostra glorificata.
Questo
gran sasso è rivolto tra ponente a tramontana, e
confina con la montagna di Cingoli, detta Sasso
rosso, dove circa nel mezzo sono aperte alcune
grotte, e alle falde di esso vi è pur quella di
Sant'Angelo, ed ivi presso una piccola chiesa con
attiguo fabbricato, ordinaria abitazione di un
eremita. A levante vi è il territorio di Treja,
alla cui direzione rivolgendosi, può vedersi per
un angusto spazio una larga pianura. A ponente e
mezzogiorno sorgono i monti di Sanseverino, il cui
territorio è diviso da quello di Cingoli da un
tortuoso fosso, che scorre tra le gole di Citona,
e Sasso rosso, e che si appella nelle recenti
tavole Gregoriane, il Rio dell'acqua.
Alcuni
scrittori tramandavano a noi, che era chiamato
Sasso di Cetone, perchè ivi presso, in tempi a
noi remotissimi, era una sorgente detta la fonte
di Citona, o di Cetona, ed altre volte di Citosa,
o di Acetosa, la cui acqua spesso appariva dentro
la grotta. Alle spalle di esso si eleva il monte
appellato Monte acuto, sulla cui vetta sino dal
Secolo XI sorgeva un vasto fabbricato, ed una
Rocca, della quale restano ancora i ruderi. (2)
Gradevole
sarebbe la vista, che si offrirebbe verso
tramontana, se al fianco della grotta non
sporgesse uno scoglio. Vi si ammirerebbe una vasta
pianura seminata di villaggi, paesi, e città, ed
in fondo il mare, e forse le montagne di
Schiavonia, ma in vece volgendo l'occhio
all'intorno non veggonsi che monti, boschi, scogli
sporgenti, macigni precipitatisi dall'alto, il
fosso con le sue acque, ed una parte di cielo, che
unico può confortare lo spirito.
Il
luogo è così ermo e nascosto, che chiunque
penetri mal si convince, che persona umana vi
abbia trascorsa la vita anche per poco tempo. E
per questo io mi penso, che la nostra Santa dopo
aver dimorato nei varj romitaggi, e nelle
solitudini di Gubbio, di Spoleto, ed in altre
dell'Umbria scegliesse questa spelonca perchè
inaccessibile anche alle belve.
La
grotta è profonda circa metri dodici, tetra ed
oscura. Non è regolare giacchè il volto oltre
all'abbassarsi in più punti, sembra rovinare.
Varie sono le nicchie e di forme diverse, nè il
pavimento è tutto in un piano, ma vi sporgono
prominenze quà e là. Nell'interno di essa vi
furono fabbricati tre locali, l'uno de' quali era
lungo piedi diecisette, largo venticinque, ed alto
tredici, forse oratorio, o cappella. L'altro
dov'era il camino aveva una lunghezza di piedi
tredici. Il terzo contava piedi sedici di
larghezza, e otto di altezza, dove vuolsi che
prendesse breve riposo, e passasse qualche ora del
giorno.
Nella
vita scritta da Tito Franceschini di Cingoli
stampata in Fermo nel 1602 e dedicata al Cardinale
Gallo, leggesi che i locali erano quattro, e che
per andare da una stanza all'altra si passava per
un buco.
E
nell'altra stampata in Fermo l'anno 1752, e
dedicata a Monsignor Compagnoni Vescovo di
Cingoli, e di Osimo si rammenta, che per entrare
nella grotta eravi un'apertura larga un piede, e
si conferma il passaggio da una stanza all'altra
mediante un buco largo due piedi per ogni lato. A
grave stento dunque vi si entrava.
Queste
notizie però non possono ora riscontrarsi perchè
il fabbricato fu demolito per eriggervi una chiesa
come vedremo qui appresso.
Capitolo
II
La
Chiesa di S. Sperandia
Rimpetto
al Monte di Citona al di là del fosso, che separa
il territorio di Sanseverino da quello di Cingoli
si trova una Chiesa dedicata all'Arcangelo S.
Michele, appellata di S.Angelo, dove ha culto un
prodigioso Crocifisso, al quale in alcuni giorni
solenni dell'anno affluiscono i fedeli d'ogni
parte. Annesso alla chiesa sorge un fabbricato pel
custode, il quale d'ordinario è abitato da un
eremita, essendo un luogo deserto.
Vi
dimorava nell'anno 1839, certo fra Andrea
Majolatesi terziario Camaldolese, il quale stante
la vicinanza di luogo saliva spesso a visitare la
grotta della nostra Santa per recitarvi orazioni,
e per ispirarsi viemmeglio alle virtù di Lei. E
poichè non di rado altri vi accedevano pure a
pregare, e vi lasciavano tabelle e voti, quali
segni visibili di grazie riportate, divisò di
eriggervi una piccola Chiesa.
Ma
a ciò effettuare con minore dispendio, risolvette
di demolire l'umile casolare, e con lo stesso
materiale costruire la nuova fabbrica. E senza
alcun'indugio ottenute appena le opportune facoltà
da Monsignor Filippo Saverio de' Conti Grimaldi
Vescovo della Città di Sanseverino, nel cui
raggio diocesano è la grotta, i locali erano
atterrati, e la Chiesa spiccava da terra. Dopo ciò
essendo venuto meno il denaro, cominciò a
raccogliere limosine, quali non gli vennero negate
da chicchessia, per cui immantinente ravviata
quella costruzione fu in brevissimo tempo condotta
a fine in modo, che nell'autunno del 1840, essa di
nulla mancava. Ma se vogliasi plaudire allo zelo
del buon Eremita, non può non deplorarsi la
distruzione delle mura santificate dalle diurne, e
notturne orazioni di Sperandia, bagnate dalle
lagrime di penitenza, e forse dal vivo sangue di
Lei, che tanto crudo governo faceva delle sue
delicate membra. Nè ai devoti sarebbe mancato un
caro monumento, che avrebbe risvegliate in loro
religiose rimembranze.
Vedesi
adunque la piccola Chiesa all'imboccatura della
grotta, ed a sinistra di chi entra nella medesima.
E' così riparata dallo scoglio, che solo dal lato
di tramontana si dovette coprire con tegole. Le
mura sono costruite di pietre miste a poco
materiale cotto, con impasto formato da calce,
arena, e brecciola. Il volto è a mattone, e può
dirsi di tutto sesto; il pavimento in parte è
formato da mattoni, ed in parte da lastre di
pietra travertina; ed in qualche punto si vede il
nudo sasso dello stesso monte. E' lunga metri
quattro, e centimetri sessanta, larga metri tre, e
centimetri trenta. La porta d'ingresso è alta
metro uno, e centimetri ottantacinque, larga
centimetri novanta. Lo spessore delle mura
laterali è di centimetri cinquantasette quello
del muro del prospetto o facciata della Chiesa è
di centimetri quarantotto, l'altro dove si eresse
l'altare di un metro, e centimetri venti. Su
questo muro è tirato un'arco, e vi si scavò una
nicchia; entro cui io trovai una piccola statua
rappresentante S. Sperandia. Sopra l'altare posa
un solo grado, o scalino di pietra rossastra
scorniciata, e levigata. Lo spazio in piano fuori
della porta della Chiesa non oltrepassa la
lunghezza di metri cinque, e centimetri cinquanta,
però in qualche punto è occupato da scogli. La
Chiesa riceve una luce sufficiente da due fenestre
aperte nei muri laterali. I piani o soglie di
queste, e della porta, e così i loro stipiti
esterni sono di pietra travertina riquadrata.
Come
ho accennato qui sopra, fin dall'autunno dell'anno
1840, poteva aprirsi al culto di Dio, perchè per
la pietà dei fedeli era stata provveduta delle
suppellettili, di sacri arredi, e perchè la
Badessa, e le Monache del monastero di S.
Sperandia di Cingoli formalmente e di libera
volontà si obbligarono al mantenimento di essa.
Tanta era la riverenza, che nutrivano a quei
luoghi santificati dalla loro celeste protettrice.
Nè alcun'aggravio derivava al monastero sia per
la modicità della spesa, e sia perchè una devota
persona aveva rilasciato formale promessa di
rilevare il monastero medesimo da siffatta
obbligazione.
Si
dava quindi partecipazione a Monsignore Filippo
Saverio de' Conti Grimaldi, il quale, come dissi,
siedeva allora nella cattedra Vescovile di
Sanseverino, che la Chiesa era fornita di tutto
l'occorrente, e si faceva istanza perchè venisse
benedetta. Senza mettere tempo in mezzo delegò
Egli per l'effetto il Sacerdote D. Niccola
Bonservizi parroco e vicario foraneo del Castello
di Serralta, nella cui giurisdizione è la Chiesa.
Questi
compiva la cerimonia il giorno 18 ottobre 1840 con
l'assistenza di varii Sacerdoti dedicandola a
Santa Sperandia. Dipoi il funzionante celebrò la
prima messa innanzi a numeroso popolo, il quale
per l'angustia della Chiesa dovette nella maggior
parte ascoltarla dalla contigua grotta. Dopo la
messa furono tutti benedetti con la reliquia della
Santa, e di poi furonvi dette altre cinque messe.
Presentata
esatta relazione all'encomiato Monsignor Grimaldi
dell'avvenuta ceremonia, e dell'accorsa
popolazione, nacque in lui il desiderio di
accedervi, ma approssimandosi l'inverno fù
consigliato differire questo pio disegno alla
estate vegnente. Imprese dunque, benchè avanzato
in età, questo disastroso viaggio nel giorno 18
luglio 1841, associato a vari ecclesiastici.
Giunto alla sommità del monte, discese alla
grotta con grave disagio, dove è la Chiesa, seguìto
da molte persone anche di civil condizione.
Entrato in essa, ed esaurite le ceremonie di
prattica, celebrò la santa messa secondo il rito
dei Vescovi. Era venuto da Cingoli insieme ad
altri ecclesiastici anche Monsignor D. Domenico
Cavallini Spadoni, ora Arcivescovo di Spoleto
Prelato di soave facondia, e con l'assenso del
Vescovo diresse agli astanti le sue parole su la
vita di Sperandia, e su le virtù e le penitenze
esercitate da lei in quello stesso luogo. Passò
poi a raccontare le celesti aspirazioni, e visioni
avute da Sperandia nella grotta stessa, e che non
una sola volta quel terreno, e quei sassi saranno
stati tinti dal verginale suo sangue.
Il
sermone detto da un prelato di quello zelo, del
quale è acceso Monsignor Arcivescovo Cavallini,
produsse negli animi profonda commozione. E per
verità doveva essere un bel quadro vedere là
nella solitudine, e presso una oscura grotta un
Vescovo con le proprie insegne attorniato da
Chierici e Sacerdoti, ed altro prelato che
sermoneggia a numerosa gente, la quale
attentamente lo ascolta, e dà segni di commozione
la più tenera.
Dopo
quel giorno( da quanto ho raccolto) spesso vi sono
celebrate le messe, ed altre funzioni a cura dei
devoti. E che la devozione sia molta, e che sia
fervoroso il concorso lo attestano i voti che vi
si cominciarono ad appendere appena aperta la
Chiesa al divin culto. Nel mio accesso a quel
solitario, e santo luogo (e fù il 9 Agosto del
decorso anno 1875) vidi appese intorno ad una
piccola statua della santa (alta centimetri 85)
collocata sull'unico altare, e nelle mura
laterali, varie immagini de' Santi garantite da
cristallo, abitini della Madonna del Carmine,
cuori riccamati, rosari, croci, Crocifissi,
Agnus-Dei, moltissime medaglie di varie grandezze;
e per sino diversi pettini da capelli. Non si
censuri, se ho creduto di ricordare anche queste
minute particolarità, perchè a mio avviso, esse
pure contribuiscono a stabilire un culto
fervoroso.
Capitolo
III
Cenni
della vita di S. Sperandia
Varie
sono le narrazioni storiche pervenute a noi sulla
vita di Santa Sperandia. L'una di esse leggesi in
un codice antichissimo in pergamena, custodito
nell'archivio Comunale di Cingoli; altra fu
esposta in ottava rima; e le rimanenti forono
dettate nel nostro idioma, e nel latino.
Se
frà quelle da me lette, e consultate in numero di
sette, si eccettui il codice, può dirsi, che le
notizie dell'una sono trasfuse nell'altre. A
meglio spandere però quella luce, che può
desiderarsi nello svolgimento dei maravigliosi
avvenimenti alle virtù della Santa attribuiti, mi
piacque seguire le orme del chiarissimo Padre
Mauro Sarti Abate Monaco Camaldolese, il quale
nella applaudita opera "De Episcopis
Eugubinis" (3) data alle stampe nell'anno
1755 avendo impreso a trattare degli uomini
illustri per santità, che fiorirono nella Chiesa
Eugubina, dettò pure la vita di Santa Sperandia,
comecchè nata in Gubbio.
E
lo elessi a mia guida, perchè l'illustre
Claustrale alla dottrina congiungeva una severa
rettitudine di mente, una sana critica. Io adunque
riferirò la parte più eletta dei suoi racconti,
senza trasandare quanto altro rinvenni altrove,
che a parer mio può esser meritevole di ricordo.
E'
giudizio del Padre Sarti, che essendo apparsa la
pubblicazione della vita della nostra Santa dopo
duecento anni dalla morte di Lei, siasi rinvenuto
ben tardi il codice Cingolano in pergamena che
tutto intiero riportò nell'appendice della sua
opera, e dove si contengono dettagliati racconti,
visioni, e miracoli. Reputa similmente, che
essendo abbastanza particolarizzato quanto si
legge in quello, o la Santa stessa per comando del
suo confessore lo scrivesse da sè, o lo dettasse,
ovvero ne somministrasse la materia ad un tal
Padre Leonardo, che si suppone sia stato il
direttore di spirito di Lei.
E
le investigazioni del Padre Sarti sono così
giuste, e stringenti da doversi prestar fede alla
sua opinione. Notava tra le altre cose, che si
usava questa espressione - Postea audivi
vocem dicentem mihi - e più avanti -
audivi loquentem mihi - ed anche - Item apparuit
Dominus Crucifixus...et dixit mihi. Era
dunque Sperandia che o scriveva, o dettava.
Il
menzionato codice è l'unico documento autentico
delle sue gesta. Si duole però lo stesso Padre
Sarti, che essendo venuto in mano di persona poco
istrutta, la quale si prefiggeva forse
rassettarlo, non sapendo leggere l'antico, travisò
il senso, giudicò male, interpetrò peggio,
invertì l'ordine, e tacque ciò che non gli stava
a genio - quae ad ejus stomacum non faciebant - e
che in tal modo ne peggiorò la condizione -
foedavit miserrime.
Dopo
questa breve digressione dirò, che Sperandia ebbe
i natali nella città di Gubbio (circostanza
taciuta a quanto pare negli atti antichi) volgente
l'anno 1216. Nessuno, che io mi sappia ha lasciato
memoria del giorno preciso. Il suo nome in origine
fù Spera in Deo, ma di poi forse per facilità di
pronunzia si disse Sperandia.
Alcuni
scrittori hanno voluto asserire, che derivasse
dalla famiglia Sperandio e che fosse parente del
Beato Sperandio, similmente di Gubbio, monaco
Benedettino, ed istitutore della Congregazione
Santucciana dello stesso suo ordine. E' fuori di
dubbio, che questo Beato traesse sua origine dalla
Famiglia Soperchia, così apparendo da diversi
atti rogati da varj notarj, e conservati nel
pubblico archivio di Gubbio.
Quale
famiglia Soperchia doveva essere ben
ragguardevole, se non pure potente, dacchè si
comprendeva, come raccogliesi dalle cronache
Eugubine, tra quelle cacciate in esilio nel secolo
XIV, in tempo delle fazioni Guelfe, e Ghibelline.
L'altra famiglia poi Sperandio forse mai ebbe
esistenza in Gubbio giacchè questo casato non si
riscontra nè in un antico indice mss. delle
famiglie Eugubine conservato presso il Signor
Avvocato Pietro Lucarelli di detta città, e
neppure nei cataloghi pubblicati con le stampe
dall'Armanni, e dal Reposati di Gubbio, eruditi
scrittori delle cose patrie. Nè coloro, cui
piacque di riconoscere, e stabilire un legame di
consanguineità nella nostra Santa col Beato
Sperandio addussero alcun valido argomento per
sostenere il loro assunto, ma così congetturarono
solo per la somiglianza del nome.
Di
nove anni appena cominciò Sperandia a godere
delle celesti, visioni, e da una di queste apprese
come avrebbe dovuto avere in dispregio il mondo,
rifuggire dalle false sue pompe, dedicarsi alla
penitenza, e con l'esempio delle virtù, e con
l'amore ai suoi simili, richiamare i traviati nel
retto sentiero.
Quantunque
giovanetta ben comprese, che a ben riuscire
nell'ardua missione, convenivale lasciare il tetto
materno menar vita in una solitudine, e rientrare
di poi a quando a quando nel civile consorzio per
apportarvi quei vantaggi, che erano nei divini
consigli. Risolvette quindi di così fare, ed una
forza irresistibile, divina, ne affrettò il
compimento. Non poteva però così eroica
risoluzione andar disgiunta da quegli ostacoli e
da quegli impedimenti, che l'affetto dei genitori
e dei congiunti vi frapponeva. Alle amorevolezze,
agli scongiuri di essi si succedevano i lamenti,
le minacce, ma nulla valse a rattenerla, per cui
vestì immantinente l'abito di penitenza usato in
modo speciale nell'Umbria, e nella Marca nel
secolo XIII. L'istituto delle penitenti, che tale
aveva nome, era promulgato mercè la predicazione
dei Santi Patriarchi Domenico, e Francesco i quali
vivevano contemporaneamente a Sperandia; e secondo
narrano le storie, copiosi erano i frutti che si
traevano dall'ammirabile esempio di quelle pie
femmine.
Dapprima
Sperandia si recò ad abitare un romitaggio nelle
vicinanze di Gubbio, indi si trasfer" alle
spelonche, ed ai siti più alpestri e reconditi
dei territorii di Spoleto, e dell'Umbria. Non ebbe
mai una stabile dimora, ma di terra in terra, di
città in città recavasi laddove era chiamata
dallo spirito del Signore, spandendo ovunque la
soavità di sue virtù, eccitando tutti alla
penitenza, sicchè molti cuori ebbe guadagnati a
Dio non solo con la voce, ma con l'esempio.
La
maniera di vestire, il portamento di Lei, ci
vengono descritti nell'antichissimo ricordato
Codice, ove si apprende, che la veste era oscura,
e tessuta di pelo di porco (corio porcino) se non
pure vogliasi dire andasse coperta di pelle di
porco, come alcuni opinano: portava il viso
velato, e il capo asperso di cenere: nudi i piedi,
e cinta ai fianchi da una lorica di ferro, quasi
alla stessa maniera delle donne ascritte
all'Istituto delle penitenti.
Quando
dalla frequenza degli uomini tornava Sperandia
alle solitudini, soleva passarvi le quaresime con
somma austerità di digiuno, in continua orazione
di giorno, e in tutta notte e nella flagellazione
delle delicate sue carni ad imitazione degli
anacoreti; il qual metodo di penitenza si
appellava-carina- che è quanto dire macerazione
per quaranta giorni.
Questa
acerbissima vita menava la nostra Sperandia non
solo nella quaresima precedente la santa Pasqua,
ma in quella eziandio dell'avvento, che dicesi di
San Martino, ed in altre frà l'anno a sua
elezione.
Ho
letto nel codice Cingolano più volte richiamato,
che ne passasse una sopra un sepolcro.
Addivenuta
adulta si accinse a varj pellegrinaggi. Si recò a
visitare i luoghi Santi di Palestina dove il N.S.
Gesù Cristo operò l'umano riscatto, e donde
riportò seco molte reliquie; indi a Roma per
venerarvi gli augusti monumenti della nostra Santa
Religione. Poco dopo il suo arrivo fu ammessa a
baciare i piedi al Santo Padre, il quale avendola
veduta scalza, e con molte ferite nei piedi mosso
da compassione le fece dare un pajo di -
stivaletti - con la ingiunzione di doverli portare
per sino a che non ne fosse perfettamente
risanata.
E
siccome le storie tacciono l'anno, in cui
Sperandia si trasferì a Roma così non può quì
indicarsi il nome del Pontefice.
Breve
però fu il suo soggiorno nell'alma città forse
perchè non poteva vivere nascosta dagli uomini,
ed in celeste conversazione con il suo Dio, o
perchè non poteva esercitare liberamente la
missione di insinuare nel cuore del suo simile il
germe della cristiana perfezione.
Risolvette
adunque recarsi nelle montuose catene, che
dividono la Marca dall'Umbria, dove (secondo ebbe
appreso) avrebbe trovato luoghi alpestri, rupi
inaccessibili, eremi e grotte, quali essa
desiderava. Penetrata nelle gole tra quel di
Cingoli, e di Sanseverino scelse a sua dimora il
Monte ossia il Sasso di Citona luogo dirupato,
spaventoso, nel cui seno trovò aperta quella
oscura, e profonda grotta, della quale ho dato qui
innanzi la descrizione.
Vi
abitò più volte e sempre in orazione, in
digiuni, e flagellazioni fino a che le suore
Benedettine di Cingoli avuto sentore della vita
austera di lei, quale con somma difficoltà
avrebbe sostenuta il più rigido anacoreta, la
invitarono al loro Monastero. Obedì Sperandia e
vi andò più e più volte; ma edificate quelle
Suore degli angelici suoi sentimenti, delle rare
virtù e dello spirito di Santità ond'era
animata, la pregarono, e reiteratamente
scongiurarono di menare i suoi giorni in mezzo a
loro.
L'Eroica
Penitente vi accondiscese, e quali si fossero di
poi gli atti di reciproca compiacenza, e di
spirituale consolazione meglio si possono
immaginare, che descrivere. Dirò solo, che
essendovi a quei tempi in Cingoli due Monasteri
l'uno sotto il titolo di San Marco, e l'altro di
San Michele, fù a Lei assegnato quest'ultimo.
Sappiamo
così che allora essa si attenne alla regola di S.
Benedetto, mentre nessuno storico ci ha lasciato
memoria a quale istituto avesse ceduto dapprima il
suo nome.
Nel
volgere di poco tempo avendo essa dato splendide
pruove anche dentro quel sacro Chiostro di una
vita esemplare non solo, ma anche di una rara
carità e di una prudenza, che non ha confronti,
la elessero a loro Superiora; officio che sostenne
sino alla morte avvenuta li 11 Settembre 1276,
nell'età di anni sessanta.
La
rigida osservanza della regola, i maturi disegni
nel regolare l'andamento del Monastero, e la
tenera sollecitudine, con cui ne resse il governo
furono oggetto di riverenza mista ad ammirazione,
laonde si accrebbe alta rinomanza al Cingolano
Monastero ove essa con lo splendore delle sue virtù
aveva chiamato molte pie donzelle, le quali
abbandonarono agj, e ricchezze a fine di
alimentarsi di sensi sublimi per la verace
perfezione, per lo che in segno di perenne
riconoscenza fù dato il nome di S. Sperandia al
Monastero, e più tardi anche alla chiesa.
Mi
passo (come ho detto in principio) dal riferire
altri fatti della sua vita, e quelli pure avvenuti
dopo la sua morte, le visioni, i miracoli, i quali
magnificano la sua gloria, perchè possono,
agevolmente riscontrarsi nelle diverse istorie
messe al pubblico da varj scrittori. Piace però
ricordare, che le stesse Benedettine per
rispondere ai segnalati beneficii, di cui furono
ricolme la elessero a perpetua protettrice del
loro Monastero poco dopo il suo beatissimo
transito al Paradiso, e che il Cingolano Municipio
l'acclamò a comprotettrice della Città e Diocesi
sino da quando si compose per tutta intercessione
di Lei la pace trà Iesi, e Cingoli sollevatisi a
sanguinose contese, e a lotte fratricide per la
demarcazione del territoriale confine.
Il
ricordo di così fausto avvenimento si volle dal
Municipio stesso perpetuare con solenni e festosi
rendimenti di grazie, che alla Santa vengono
innalzati nella prima Domenica di Settembre di
ciascun'anno.
Mi
sarebbe stato a cuore parlare del culto speciale
prestato a questa Santa dai Castellani di Serralta
Diocesi di Sanseverino, nelle cui pertinenze
abbiamo un religioso monumento nella tenebrosa
grotta dove passò per molto tempo una vita di
austera penitenza. Avrei voluto palesare la
accoglienza fatta dal popolo di esso Castello al
prelibato dono di uno dei nominati - Stivaletti
- e l'incontro processionale sino al confine di
Cingoli a questa insigne reliquia. Avrei goduto
nel narrare le festose sagre cerimonie per la
solenne inaugurazione di tanto culto in Serralta,
essendo circostanze, che tornano tutte ad onore
ancora della nostra città, ma sapendo, che il
pio, e zelante nostro Vescovo Monsignor Francesco
Mazzuoli ne aveva mandato esatta relazione nei
trascorsi giorni alla Cronaca cattolica - Il Divin
Salvatore - che si pubblica in Roma, mi giova
meglio rimandare a quella chi fosse vago
conoscerne un dettagliato racconto.
1)
La mia descrizione ha il titolo seguente - Un
dipinto nella Chiesa di Santa Sperandia in Cingoli,
Macerata 1850 Tipografia di Alessandro Mancini.
Nell'alto del quadro si vede la Beatissima
Vergine, e nel piano Santa Sperandia, che stringe
con le mani giunte una piccola croce rossa, e le
Sante Agnese, e Barbera, S. Giovanni Battista, e
l'Arcargelo Michele, intento a pesare in una
bilancia due anime raffigurate sotto nudo corpo.
Uno di esse è stata già afferrata da Lucifero
con gli artigli. Nel grado della tavola sono
effigiati S. Benedetto, S. Marco Evangelista, S.
Antonio Abate, ed altro che non seppi riconoscere;
negli estremi lati la Vergine di Nazaret, e
l'Angelo Nunziatore. Vi trovai a carattere Romano
il millesimo 1526. Fù giudicato opera di Andrea
da Jesi città prossima a Cingoli, valente
pittore, che fioriva nel primo quarto del secolo
XVI, e che si vuole fosse un degno seguace del
divino Raffaello.
2)
Vari scrittori fecero menzione di questa Rocca,
toccando di volo le controversie sorte tra i
Sanseverinati da una parte, ed i Trejesi
dall'altra, i quali se ne contesero il dominio per
fino colle armi. Essa s'innalza orgogliosa sopra
Montacuto di cui come del sasso di Citona, dov'è
la grotta, è proprietario il Diocesano Seminario
di Sanseverino ed enfiteuta la famiglia Sassolini.
Taccio le molte ed interessanti notizie da me
raccolte intorno alla detta Rocca perchè non
richieste dall'argomento di questo mio opuscolo.
Esse però insieme alle piante, e prospetti da me
posseduti dei ruderi varranno quando che sia a
tesserne una descrizione più chiara, ed una più
precisa illustrazione.
3)
Eccone il titolo - Mauri Sarti - Monachi, et
Cancellarii - Camaldulensis - De Episcopis
Eugubinis - Ad Eminentissimum et Reverendissimum
Principem Henricum Henriquesium - S.R.E.
Cardinalem Emiliae Provinciae Legatum - Praecedit
ejusdem Auctoris de Civitate et Ecclesia Eugubina
Dissertatio - Pisauri MDCCLV - E typographia
Gavellia. |
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