Coordinate
(google maps):
43°22'16.07"N 13°12'46.73"E
«Il luogo su cui s’erge questo sacro tempio cristiano
intitolato all’apostolo Giacomo è attestato per la prima volta in un documento
pergamenaceo, datato 1193, dell’Archivio di S. Caterina (archivio ora confluito
nell’Archivio Storico del Comune di Cingoli), come "placze ysule" che è a
dire, in un latino meno corrotto,
"Plaia de Insula": corrispondente all’italiano "Piaggia dell’Isola".
L’attestazione di una prima presenza antropica in
quest’area si ha invero in un documento di un quarantennio successivo, una
pergamena dell’Archivio di S. Caterina, datato 1233: documento attestante la
donazione da parte di alcuni possidenti locali, dai nomi esplicitamente di
matrice germanica (a testimonianza ulteriore dell’influsso forte e duraturo
della presenza longobarda sul territorio cingolano): Actus Rollandus,
Benvenutus Actonis Ugonis, Ubaldus Rainaldus, Grimaldus Goczonis,
della "terram positam in fundo placze Ysule" ad alcune "Dominae
volentes morari in capite placze ysule", rispondenti ai nomi di:
Marsibilia, Jacovina, Actolina, Margarita, Agata,
Agnese "et aliorum".
Si tratta di un documento
singolare, assai importante e per la storia del futuro monastero di S. Giacomo
Apostolo e per la storia spirituale e sociale di Cingoli; documento, però, che
non è stato mai analizzato e interpretato, anzi – mi permetto di dire – che non
è stato di fatto letto come doveva, con la dovuta cura e attenzione. Ma
prima di prendere attentamente in considerazione tale documento per analizzarne
il contenuto, occorre riferirsi ad altri due antichi documenti, di poco
successivi, relativi alla comunità della "Plaia de Insula",
rispettivamente datati 1239 e 1240: proprio dal confronto con questi risulterà,
infatti, la singolarità di tale atto.
Perg. n. 241 (30 ott. 1239): indulgenza conceduta dal
vescovo di Osimo Sinibaldo I
a tutti
coloro che avessero elargito elemosine alle "Domines rencluses
volentes Deo servire" del Monastero di S. Giacomo "justa Castrum Cinguli
in placza disula" relativamente al quale si aggiunge: "noviter ceperit
hedificari".
Perg. n. 513 (8 sett. 1240): privilegio del vescovo di
Osimo Rinaldo ("faciamus
gratiam specialem") di esenzione da ogni onere ("tam in
spiritualibus quam in temporalibus") verso la Diocesi
concesso
alle "dilectae in Christo filiae Sorores reclusae
Monasterii S.Iacobi de Plaia Insule" delle quali si aggiunge "morte
mundo, licet viventes in Christo & recluse in
monasterio quasi vive sepulte".
Dal confronto da questi documenti
emerge chiaramente come l’atto del 1233 non possa esser considerato come la
prima attestazione della comunità religiosa, specificatamente
benedettino-cistercense di stanza in "Plaia de Insula", ne tanto meno
come la prima attestazione della chiesa e del monastero di S. Giacomo di
Piaggia dell’Isola di Cingoli, come fatto, invece, dalla relativa
storiografia; storiografia tutta ecclesiastica, avendo avuto i suoi
rappresentati nel dotto vescovo di Osimo e Cingoli Pompeo Compagnoni (che
pubblica i suoi 5 corposi volumi sulle "Memorie della chiesa e de vescovi di
Osimo" nel biennio 1782-1783) e in don Adriano Pennacchioni (che iniziò la
stesura del manoscritto "Notizie storiche sul convento e la chiesa di S.
Giacomo di Cingoli" il 15 aprile 1988). Ho sottolineato tale aspetto della
storiografia relativa a S. Giacomo di Cingoli perché credo sia plausibile
ipotizzare che proprio l’appartenenza del Compagnoni e del Pennacchioni al clero
abbia inficiato la loro lettura della pergamena del 1233.
In questo documento si parla
infatti semplicemente di "Domines" delle quali si afferma: "volentes
morari"; nessun riferimento vi compare alla fede e/o alla religione, ne vi è
menzione di una "Ecclesia"e/o di un "Monasterium". Sappiamo come
l’uso della terminologia nella produzione notarile (e tutti gli atti da noi
presi in considerazione rientrano in tale categoria) fosse, come poi continuerà
ad essere, molto accurata e precisa. Ebbene, nel periodo di nostro interesse la
scelta del termine per indicare delle religiose, cioè donne appartenenti ad un
ordine religioso, poteva cadere o su "moniales" o su "sorores".
In effetti, per venire al nostro
caso, nella pergamena del 1240, la ove c’è il preciso riferimento alla religione
cristiana e al monastero di clausura di S. Giacomo della Piaggia dell’Isola si
parla di "sorores" e non più, invece, di semplici "domines".
Chi erano dunque queste donne che nel 1233 decisero di vivere nella terra "posita
in plaia de insula"?
Queste "domines" vanno
ascritte a quel libero associazionismo di vita femminile che costituì una
componente importante del complesso e variegato panorama della società
medievale: una realtà sociale, alla quale solo di recente la storiografia medievistica ha posto attenzione, nota come: beghinaggio
(1).
Non sappiamo a quale ordine
religioso tali donne avessero aderito in quel volger di giorni o mesi compresi
tra l’autunno del 1239 e l’estate del 1240 (i documenti successivi parlano senza
specificare di: "sorores" e/o "moniales").
Ciò che si ricava dai documenti, e
che il Compagnoni stesso, in qualità e di storico e di vescovo di Osimo e
Cingoli, riferisce come certa, è invece la tenacia con cui la comunità religiosa
femminile di S. Giacomo Apostolo di Cingoli continuerà a far valere quanto
stabilito dal vescovo Rinaldo nel privilegio del 1240, ovvero: la propria totale
indipendenza ("tam in spiritualibus quam in temporalibus") dalla diocesi.
Per quanto concerne, invece, la
vicenda architettonica della chiesa e del monastero di S. Giacomo Apostolo è da
notare che la fabbrica da poco aperta nel 1239 (nella pergamena n. 241 si
afferma, lo si è osservato, "noviter ceperit hedificari") raggiunse la
propria conclusione plausibilmente sul finire del secolo. Poggio questa
asserzione sul fatto che il portale principale della chiesa (attualmente non più
nella sua posizione originaria) è senza ombra di dubbio attribuibile alla mano
di magister Iacobus de Cingulo, il quale sappiamo attivo in Cingoli
proprio sul finire del secolo XIII: periodo in cui realizza, infatti, oltre ai
portali di S. Francesco e di S. Niccolò, quello eccelso di S. Esuperanzio, che
firma e data: 1294.
Col finire del secolo XIII, così
come si apprende dai documenti, un altro evento di un certo interesse viene ad
interessare questo luogo. Proprio in questo volger di anni nei documenti per
indicare la chiesa e il monastero di S. Giacomo Apostolo inizia ad attestarsi la
formula toponomastica: "Ecclesia et Monasterium S. Iacobi Collis Lucis"
insieme o in luogo di quella "Ecclesia et Monasterium S. Iacobi in Plaia
Insule"; formula quest’ultima che scomparirà totalmente in breve tempo
nell’oblio più profondo.
Anche su tale toponimo è bene
fermarsi. Innanzitutto perché si è tramandata, anche là dove non avrebbe dovuto,
cioè nella produzione storiografica, una errata interpretazione di esso,
originata da don Adriano Pennacchioni in suo opuscolo storico del 1972
Testimonianze di epoca romana in Cingoli, secondo la quale "Collis Lucis"
indicherebbe – cito testualmente – «l’esistenza sul luogo, in epoca romana,
di un bosco sacro». Tale interpretazione si basa su un grossolano errore di
grammatica, ovvero, sull’identificazione di lucis come genitivo singolare
di lucus (termine latino che indica difatti il bosco sacro); ma è
palese che il lemma lucus, della 2° declinazione, contempli per il
genitivo la forma in -i e non in -is, che è propria invero dei
termini appartenenti alla 3° declinazione. Il lucis di Collis Lucis
è invero il genitivo del termine lux (luce), appunto della 3°
declinazione. Il toponimo va tradotto dunque come "Colle della Luce".
Epiteto che certo rispecchia una caratteristica naturale di tale area, quella di
ricevere durante l’intero volger del giorno la luce solare; non è da escludere
inoltre che tale toponimo contemplasse o abbia iniziato a contemplare con il
tempo anche un significato traslato, metaforico, di valenza sapienziale, come di
fatto accadde per il celebre e antico motto: «Scesa ancor non è su Cingoli la
notte!»
Ma torniamo alla vicenda della
comunità religiosa femminile di stanza in S. Giacomo Apostolo. Numerosi sono i
documenti relativi al monastero e alla comunità monacale per tutto il corso
dell’ultimo cinquantennio del secolo XIII e dell’intero successivo XIV secolo.
Trasvolando su questi, attestanti donazioni di beni mobili ed immobili e
concessioni di privilegi (che ci permettono di ipotizzare un aumento di
prestigio e importanza di codesto monastero lungo il corso del Trecento),
veniamo a un documento assai importante per la storia del monastero di S. Giacomo
Apostolo: si tratta della Bolla di papa Bonifacio IX del 25 maggio 1395 con la
quale si ordina l’annessione del monastero di S. Giacomo Apostolo in Colle Luce a
quello benedettino-cistercense di S. Caterina. Tale annessione ebbe come
conseguenza, non sappiamo se immediata, l’abbandono del monastero di S. Giacomo
quale luogo di residenza da parte della comunità monastica che fino a tale data
vi aveva soggiornato e che venne a confluire nella comunità di S. Caterina e a
prender stanza nel monastero di questa. Quando infatti nel 1446 – ovvero
precisamente 50 anni dopo – l’intera struttura di S. Giacomo Apostolo fu ceduta,
con bolla di papa Eugenio IV, ai Minori Francescani versava in condizioni di
totale abbandono.
E giungiamo così al periodo
francescano del monastero di Colle Luce di Cingoli. Periodo assai lungo (i
Minori Francescani risiederanno ininterrottamente in S. Giacomo fino alla
soppressione napoleonica, quindi quasi quattro secoli); periodo ricco e
complesso, relativamente al quale possediamo numerosi documenti, e notarili, e
letterari e architettonici e artistici. Periodo che richiederebbe quindi una
trattazione ampia e articolata. In breve è da dire che ai Minori
Francescani va riconosciuta l’autorità della ricostruzione, di fatto totale, del
monastero e della chiesa.
Il monastero fu innalzato in forme
molto più ampie rispetto a quello originario e soprattutto secondo un disegno
assai più articolato, comprendente oltre alle aree essenziali (dormitorio,
refettorio, infermeria, ecc.) e un nuovo chiostro, nuovi spazi dedicati a
biblioteca, a scrittorio e ad aule scolastiche (aule nelle quali prima come
alunno e poi come maestro respirerà il celebre filosofo commentatore
aristotelico Gentile da Cingoli).
Per quanto concerne la chiesa anche
questa subì un radicale mutamento di fisionomia: la linea romanica originaria fu
completamente alterata: l’abside fu infatti spostata da est a ovest, e, di
conseguenza, il portale duecentesco fu smontato e trasportato ad est (dove
tuttora si trova).
La nuova sede francescana, che già
a partire dall’ultimo quattrocento assunse notevole prestigio e importanza (fu
scelta quale sede di vari capitoli generali dell’ordine; vi sarà trasferita
all’inizio del secolo XVI la sede del noviziato della Provincia ecclesiastica
Picena e quindi apertevi le cattedre di Filosofia e Teologia), iniziò ad
attrarre l’attenzione delle maggiori famiglie nobili della città di Cingoli che
nel corso del Cinquecento costruirono all’interno della chiesa i propri altari
di giuspatronato. Tra questi, meraviglioso, e forse per questo unico
sopravvissuto al tempo e all’uomo l’altare, dall’ermetica simbologia, della
famiglia Franceschini, realizzato nel 1505 e attribuito da alcuni alla bottega
dei Lombardi.
Altro importantissimo monumento
all’interno di questa chiesa, seppur assai meno imponente di quello appena
citato, anzi, nell’attuale sua posizione, quasi invisibile, è l’epigrafe posta
il 24 giugno 1597 dai fratelli Pietro e Paolo della nobile famiglia Onori a
ricordo della defunta loro madre: Maria Manuzio (nipote di Aldo Manuzio e
sorella di Aldo il Giovane, sposa a Roma il 24 novembre 1573 di
Alessandro Onori, patrizio cingolano).
La chiesa subì quindi un ulteriore
consistente processo ricostruttivo nel corso del settecento, plausibilmente nel
contesto del generale sviluppo architettonico e urbanistico che interessò
Cingoli a partire dal 1725: anno in cui ottenne, con motu proprio del
pontefice Benedetto XIII, la reintegrazione della sua antica cattedra episcopale
e, quindi, l’ambito titolo di città».
All'interno della chiesa vi sono
due interessanti dipinti,
San Pietro d'Alcantara, attribuito
all'ascolano Sebastiano Gheppi, e La Vergine,
San Luigi di Francia e Santa Elisabetta d'Ungheria attribuito a Gaetano Lapis, di
Cagli, allievo del Conca
(2).
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Portale
della chiesa di S. Giacomo (foto del 2/1/2004) |
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Portale
d'ingresso al monastero (foto di S. Mosca)
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Il
complesso monastico di S. Giacomo alle prime luci del giorno
(foto di S. Mosca) |
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(1)
Beghina
(declinazione femminile di Beghino, Begardo o Bizzocco)
è il nome, usato probabilmente in senso spregiativo da parte dei
cattolici, che a partire dal
XIII
secolo fu utilizzato per indicare i membri di
associazioni religiose che si erano formate al di fuori
dell'organizzazione gerarchica della
Chiesa
con intenti di rinnovamento spirituale. Queste associazioni,
alle quali si era ammessi senza pronunciare i voti, ben presto
caddero in sospetto di
eresia
a causa della loro estrema aderenza all’esperienza di vita
terrena promossa dalle scritture evangeliche e della loro tenace
denuncia della ricchezza ecclesiastica, trovando più tardi vera
e propria persecuzione e morte nel nefasto ed intransigente
periodo del pontificato di Giovanni XXII, all’inizio del XIV
secolo. A tali condanne e persecuzioni seguì una vera e propria
damnatio memoriae di tale fenomeno, a maggior ragione in
ambito ecclesiastico; da qui la mia precedente osservazione che
fu proprio l’appartenenza del Compagnoni e del Pennacchioni al
clero ad aver inficiato la loro lettura della pergamena del
1233: in quelle "domines" essi non avrebbero potuto
individuare niente altro che delle monache, come, del resto,
sarebbero divenute di lì a qualche anno,
L. Pernici, Il complesso di S.
Giacomo in Colle Luce, Relazione storica a cura di
Luca Pernici, Biblioteca Comunale di Cingoli
2) P.
Appignanesi, Guida della città e del territorio, in Cingoli. Natura Arte Storia Costume, Cingoli 1994, p. 120
Fonte:
L. Pernici, Il complesso di S.
Giacomo in Colle Luce, Relazione storica a cura di Luca Pernici, Biblioteca Comunale di Cingoli
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