Sulle colline più basse del
territorio cingolano predominano vigneti di rosso Conero e di rosso
piceno, in quelle più elevate vigneti di Verdicchio e, in
misura minore, di trebbiano dorato di elevata gradazione. I rossi
si accompagnano ottimamente con i salumi locali: ciauscolo, salame di
fegato, salame lardellato, lonza, ecc. Il ciauscolo, soprattutto se
stagionato a dovere, e il salame di fegato sono noti anche fuori della
regione.
L'ottima qualità dell'olio che si
produce e si commercializza è dovuta sia alla posizione degli oliveti,
sia alla varietà coltivata: in genere il Centro Italia e le zone poste
tra i 300 e i 500 metri di altitudine sono considerate aree di
eccellenza; la varietà coltivata, la Mignola di Cingoli, per
caratteristiche climatiche e organolettiche, assomiglia molto al
Moragliolo Umbro. La coltivazione dell’olivo a Cingoli ha attestazioni
molto antiche, facendosene menzione già nelle petizioni rivolte
agli arcivescovi ravennati, sotto la cui giurisdizione era allora una
parte del territorio comunale, negli anni compresi tra la prima metà
del sec. VII e gli ultimi anni del sec. X. Numerose le notizie a partire
dal sec. XII; l'olivo era allora spesso associato a vigne e ad alberi di
fico. Già lo statuto comunale del 1325 disciplina l'esportazione
dell'olio, che deve avvenire col permesso del podestà (cum apodissa
rectoris). Nel 1430, da una serie di disposizioni per la tratta o
pedaggio, si ha che i buzzi, ovvero fiscoli da olio pagavano due
soldi per canna, l'olio un soldo per cannata, le macene
da olio venti soldi per ciascuna.
Francesco Panfilo, umanista
settempedano scrisse del territorio cingolano, nel sec. XVI: terra
parum Cereri, Semeles sed idonea nato Nec fugit omnino Palladis arbor
humum. Versi che il Colucci, due secoli dopo, così annotò:
“l'olivo è l'albero di Pallade, e di questo abbonda il territorio di
Cingoli”.
Nel XIX secolo si contavano, nel
territorio, 52 frantoi attivi e il papa cingolano Pio VIII, accordò,
con notificazione del 23 maggio 1829, un premio a chi avesse arricchito
lo Stato Pontificio di nuove piantagioni di olivi. Oggi, nella terza
domenica di settembre di ogni anno, ha luogo nella frazione di
Troviggiano la Sagra dell'olio d'oliva, con convegno di studi,
esposizione degli oli extra vergini delle Marche e assegnazione dell' olivo
d'oro.
Rinomato è il pecorino locale,
leggermente piccante e profumato a metà maturazione, da consumarsi,
tradizionalmente, all'aperto, dopo un'escursione per i boschi, con pane,
fave fresche, lonza, il tutto accompagnato dal verdicchio o dai
rossi ben noti.
Con forme di pecorino secco, in
luogo del noto disco di legno, si giocava a ruzzola, ancora quarant'anni
fa, soprattutto in tempo di Quaresima. Già nel 1508 si ha la
proibizione di rutulare li cagi per certe strade troppo
frequentate immediatamente fuori della città, divieto riconfermato
puntualmente fino al XVIII secolo. Il premio per la squadra vincitrice
consisteva in dieci-quindici chili di formaggio. Il pecorino entra nella
preparazione dei cargiù (calcioni), ravioli di grandi dimensioni
con ricotta, e, a grossi tocchi, nella pizza de cagiu (pizza di
formaggio) una o più fette della quale non manca mai a completamento
del pranzo pasquale.
Sono oggi scomparsi dalle mense
due tradizionali piatti poveri: i tajulì pelusi e i frascarélli.
Hanno invece resistito tenacemente i dolci, il cui consumo, un tempo
rigorosamente legato alle più importanti festività religiose, si
estende oggi, in alcuni casi, a tutto l'arco dell'anno. Tipico dolce
natalizio è il cavalluccio: un involucro di pasta sottile e
croccante che contiene 'a 'ntocca, impasto costituito da sapa
(mosto cotto), zucchero, caffè, noci, mandorle o nocciole, canditi,
cioccolato e pane grattugiato.
Dolci di carnevale sono i
croccanti scroccafusi, le sfrappe (le frittelle con gli
anici cosparse di miele) e, soprattutto, la cicerchiata,
costituita da tante palline di pasta, fritte e legate insieme da
zucchero e miele. A Pasqua fanno grande mostra di sé grandi ciammelle
(farina e zucchero) cosparse di glassa, u serpe e l’agnellu,
entrambi di pasta frolla con ripieno di mandorle, cacao, zucchero,
albume d'uovo, rum, il tutto coperto di glassa,
e i calcioni dolci o picù (piconi), specie di grossi ravioli di
pasta frolla ripieni di pecorino fresco grattugiato e impastato con
torli d'uovo, zucchero, bucce di limone e cotti nel forno.
Meritano menzione, per finire, i sapitti,
fatti con farina nuova di granoturco, sapa e pezzetti di noce, 'a
crescia coi grascelli, cioè una pizza con i ciccioli (i
residui della fusione dello strutto), u salame de fìcu, composto
di fichi farciti con mandorle, noci e anici, confezionati in forma di
panetti cilindrici, quasi piccoli salami, avvolti con foglie di fico
tenute ferme da un filo, e u roccio, una ciambella di farina,
mosto, olio, zucchero e anici.
Tratto da:
A. Calvelli,
Gastronomia e prodotto locali, in AA.VV., Cingoli. Natura. Storia. Arte.
Costume, pp. 140-143
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