Albero genealogico- Tavola II

 

47 - Pagnone

Era ascritto al collegio dei giudici, e per conseguenza uomo di toga. La pace stabilita in Cingoli tra guelfi e ghibellini ebbe corta durata, e ben presto le due parti corsero nuovamente alle armi. Non si conoscono i precisi particolari di queste piccole guerre: abbiamo soltanto gli atti emanati dai prelati che reggevano la provincia per la Chiesa per comporre le discordie e punirle. Dopo una lunga lotta fu imposta una pace da Giacomo da Razzano vicario della Marca per Carlo di Valois nel principio del 1302, e segnarono pei Cima, insieme con Pagnone, e Taddeo di messer Rinaldo e Ruggeruccio di Attone. Altra pace fu stipulata nel 1303, a mediazione di Antonio D'Orso vescovo di Fiesole, essendo le parti venute nuovamente a contesa appena partito Carlo di Valois; e nell'anno istesso ebbe quel prelato a pubblicare una sentenza di condanna, probabilmente contro i guelfi perchè primi l'aveano violata. Certo è che nel 1304 questa fazione preponderava in Cingoli, e che Pagnone teneva la città a posta sua, allorquando Appigliaterra Mainetti, sentendosi più forte per gli aiuti che ottenne da Sanseverino, levò a rumore la città, imprigionò il potestà ch'era Gualtieri dei Bardi, fiorentino e guelfissimo, e lo derubò dei suoi arnesi; cacciò poi a furore Pagnone e tutti dei Cima, molti uccise dei suoi seguaci, saccheggiò e distrusse le case loro. Rambaldo conte di Collalto rettore della Marca Anconitana fulminò severa condanna contro i Mainetti ed i complici; ma il trasferimento della sedia pontificia ad Avignone indusse la curia a recedere da tanto rigore, per non alienarsi affatto l'animo di coloro che dominavano le terre sulle quali la Chiesa pretendeva dominio; e perciò Bertrando Du Goth, nipote del pontefice e per lui vicario in Ancona, con sentenza del 18 giugno 1306, diè assoluzione al Mainetti, condonandogli qualunque pena, ed ordinando che si ponesse un velo sopra il passato purchè pagasse una multa. Sembra che in quella circostanza, o per qualche altro tumulto seguìto non molto dopo, la Chiesa riprendesse predominio in Cingoli, e vi stabilisse un governo popolare sotto la sua protezione dopo di aver cacciati i Mainetti ed i Cima; avendosi del 1307 alcuni statuti, diretti principalmente al mantenimento della pubblica quiete e perciò ostili ai magnati, redatti da 20 popolani scelti dal parlamento del Comune e approvati dal potestà destinatovi dal rettore della provincia. In quell'anno Pagnone era capitano del popolo di Siena, dove prese parte alla guerra contro i ghibellini di Arezzo, ma non aveva dismesso il desiderio della vendetta contro i Mainetti; e stavasi queto perchè non si sentiva forte abbastanza per ritentare la prova. Appena peraltro si sentì in grado di farlo, nell'inverno del 1308, adunati segretamente i suoi seguaci e circondato da oste numerosa per cavalli e per fanti, assalì improvviso e di notte le porte di Cingoli, le ruppe a forza, corse le piazze e le vie, invase il pubblico palagio cacciandone gli officiali; ed impossessatosi delle carte tutte del Comune, lo saccheggiò, lo arse; occupò dipoi il palazzo del popolo nonostante che fosse valorosamente difeso ed imprigionò il capitano; si rese infine padrone della città. A tanto eccesso non poteano restarsi in silenzio i rettori ecclesiastici; quindi è che Martino da Fano giudice dei malefizi nella Marca, il dì 18 marzo dell'anno stesso, diè sentenza con cui condannò Pagnone, il fratello ed altri 37 dei suoi aderenti alla morte, a potere essere impunemente offesi negli averi e nelle persone, ed a pagare alla camera apostolica mille marche d'argento per ciascheduno, col bando del capo se non volessero o potessero pagar quel denaro. Narrasi nella sentenza che il Cima ribellò la terra della Chiesa, e questo vorrebbe dire che almeno per poco tempo, se ne tolse in mano il dominio: ben vuol soggiungersi peraltro che non lo ritenne lungamente perchè la citata condanna lo indica fuoruscito. Dovè peraltro ottenere presto il perdono e con esso la facoltà di tornare alla patria, dove si fa menzione di lui nelle pubbliche carte, intorno al 1312, per lo zelo con cui si occupò a reintegrare il Comune di Cingoli negli antichi confini, che nei passati sconvolgimenti erano stati violati dalle città più vicine, in specie da Osimo; fatto ch'era per lui di sommo interesse perchè, conscio delle sue mire ambiziose, bene capiva che difendeva i suoi futuri diritti difendendo quelli dei cingolani. Non molto dopo gli convenne di ricalcare la via dell'esilio perchè il Mainetti con i suoi ghibellini, ripreso rigoglio per la presenza di Arrigo VII in Italia, riuscì a tornare in Cingoli cacciandone Pagnone coi suoi partigiani; ma le istorie si limitano ad accennare l'avvenimento senza esporre circostanze. Durò l'esilio per dieci anni, durante i quali sappiamo del Cima soltanto che resse Orvieto qual potestà nel 1314, che in Perugia fu potestà nel 1318, e capitano del popolo in Orvieto nel 1323: abbenchè su queste magistrature esercitate in queste città abbia motivo di non avere certezza, non trovandone fatta menzione dal Manenti che ne espone la serie. Fu questo l'anno del suo ritorno alla patria, e dovè certamente essere accompagnato da violenze, sapendosi di condanne pronunziate a suo danno e dall'assoluzione concessagli da Amelio rettore pontificio della Marca d'Ancona. Ma per viemeglio afforzarsi giudicò Pagnone ch'espediente fosse di ottenere conferma da Giovanni XXII di questo decreto assolutorio; al quale oggetto gli deputò ambasciatori ad Avignone. Il papa, volendo meglio conoscere i fatti, delegò questo affare a Giberto arcivescovo d'Arles e a Francesco Silvestri da Cingoli vescovo di Firenze: i quali dettero sentenza, che il pontefice approvò con bolla del dì 27 agosto 1324. Per quella fu il Comune di Cingoli condannato a pagare entro 18 mesi 5.000 fiorini d'oro di Firenze, e confermandosi l'esilio perpetuo di Appigliaterra Mainetti e dei suoi seguaci; fu posta a carico di essi la più gran parte di quella multa; fu ordinato che si dovessero atterrare due fortilizi soprastanti alla città spettanti a private famiglie, con questo però che, in luogo idoneo, da scegliersi dal rettore della Marca, si ergesse a spese comuni una rocca a servizio della Chiesa romana, da custodirsi da castellani nominati dai governatori della provincia e pagati dai cingolani; e finalmente, a garanzia della multa, fu preso in pegno il castello di Castreccione. In nessuno di questi atti comparisce il nome di Pagnone, il quale peraltro tutto dirigeva dietro la scena, e tutti sono fatti a nome del potestà, dei priori, dei 125 buonomini, del consiglio generale e dello speciale. Orvieto lo desiderò di nuovo per suo rettore nel 1333, ma non vi ebbe tranquillo governo, perchè la città fu sconvolta dalle fazioni; le quali, venute alle mani fra loro, la funestarono di stragi. Le memorie di Cingoli gli attribuiscono altri offici e tra questi il capitanato del popolo in Firenze nel 1326 e nel 1329, ma non trovano verun riscontro nei documenti fiorentini, i quali anzi notano in quegli anni l'officio esercitato da altri. Era piuttosto del suo interesse di starsi in patria e di vigilare continuo sugli avvenimenti del natìo paese; e pare che lo facesse avendo curato nel 1325 la compilazione dei nuovi statuti, nei quali è nominato il primo tra i presenti alla loro pubblicazione. Il più antico documento in cui si vede Pagnone sedere a capo del Comune di Cingoli è del 1332, quando cioè, a nome del papa, fu presentato un breve del dì 3 di maggio al consiglio generale, alla presenza di Pagnone, di Giovanni e Tanarello figli, e di Ramberto fratello suo. Volle il pontefice con quell'atto premiare la devozione alla Chiesa prestata in molte occasioni dai Cima e dalla città; e più specialmente quando i fuoriusciti, convenuti nella vicina terra di Apiro, tentarono che Cingoli si sollevasse per opera dei loro fautori, togliendo a pretesto la presenza di un esattore inviato dal rettore della Marca per ottenere il pagamento di una colletta; sollevazione tentata si, ma fortunatamente repressa, sebbene con spargimento di sangue: per le quali cose condonò 2.000 fiorini della multa imposta nel 1324, accordando la dilazione di due anni al pagamento della somma residua. Fu quello l'ultimo tentativo fatto dai Mainetti e dai ghibellini per tornare in potere; ma fruttò ad essi sventura, mentre fu cagione di fortuna pei Cima, perchè appunto dopo il 1332 cominciò Pagnone a prendere parte agli affari siccome capo della città e del Comune, e ad essere come tale riconosciuto dai pontefici: dovendosi ciò dedurre da un istrumento di composizione stipulato con Pietro da Gallicata che fu rettore della Marca dal 1333 al 1336, e perciò sicuramente da riportarsi a quel tempo. E' naturale che Pagnone desiderasse di dare appoggio a quei potenti che, a pari di lui, volevano farsi padroni dei propri concittadini; laonde non deve recar meraviglia se sappiamo che nel 1339 spedì i suoi figli con grossa schiera di militi verso Matelica per appoggiare i tentativi di Borgaruccio Ottoni che aspirava alla tirannia della patria; appoggio che riuscì invece di danno, perchè l'ambizioso fu massacrato dal popolo insieme col figlio. Pagnone poco gli sopravvisse, constando da un documento del dì 25 febbraio 1340 ch'egli avea già pagato il suo tributo a natura. Narra lo storico di Cingoli, ed altri autori con lui, che Lodovico il Bavaro gli diè diploma di vicario imperiale sulla sua patria, siccome vuolsi che lo concedesse a molti altri tiranni della Marca Anconitana e delle Romagne: ma questo e gli altri consimili documenti giammai furono vantati o prodotti dai pretesi vicari, e vi contrasta la critica non meno che il silenzio degli scrittori contemporanei.

 


47 - Pagnone
48 - Giovannuccio
49 - Tanarello
50 - Vanni
51 - Forestiera
52 - Bartolo

 

48 - Giovannuccio 

Era presenta in Cingoli insieme col padre alla presentazione fatta del breve pontificio così benevolo alla città del 1332. Dovè certamente essere uomo di coraggio ed in molta reputazione nella provincia, dove tenne la potesterìa di varie terre; tra le quali fu Ascoli, in cui risiedeva quando venne a morte Pagnone. Colà lo raggiunsero gli ambasciatori del Comune di Cingoli, dai quali fu invitato a tornare in patria per esservi potestà e capitano di guerra, titoli sotto i quali nascondevasi una signoria vera e propria, e che avea la tacita acquiescenza dei papi. Ed infatti se non avesse potuto a sua posta disporre dei soldati del Comune non sarebbe accorso nel luglio del 1348 a soccorrere gli anconitani; i quali decimati dalla orribile pestilenza dell'anguinaia, aveano, per aggiunta di mali, veduta distruggere una considerevole parte della loro città da un incendio divoratore che durò per intieri tre giorni. Di questo benefizio tanta riconoscenza sentì il Comune di Ancona, che tutta volendo attestargliela, lo elesse con onorevole decreto all'officio di potestà. Poco peraltro ei godè della novella dignità, perchè lo colse la morte dopo appena tre mesi il dì 31 di ottobre dello stesso anno; e si ebbe bell'attestato dell'affezione dei suoi amministrati quando decretarono che fosse armato cavaliere nella sua bara, e dopo magnifici funerali, seppellito a spese pubbliche nella cattedrale di s. Ciriaco presso l'altare di s.a Lucia.

49 - Tanarello

Scarse sono le notizie che lo concernono. Fu potestà di Orvieto nel 1343, ma non vi esercitò autorità che di nome perchè la somma delle cose era tutta concentrata nelle mani di Matteo degli Orsini. Morì, e forse di pestilenza, intorno al 1348. 

Incerto è il suo matrimonio con Elisabetta di Baldone Silvestri. Di una moglie di nome Francesca non si hanno ulteriori notizie.

50 - Vanni

Rettore della chiesa di s. Lorenzo del borgo di Port'Acera, eletto il 18 agosto 1350

51 - Forestiera

Fu eletta badessa del monastero di s.Caterina di Cingoli, nel 1340, non avendo ancora trent'anni di età. Morì nel luglio del 1351

52 - Bartolo

Nel 1341 fu eletto priore della canonica dei santi Quattro Coronati di Cingoli; ma non appare per questo ch'egli fosse ecclesiastico. Alla morte del fratello il Comune di Ancona lo destinò a succedergli nella potesterìa, ma tenne il governo per brevissimo tempo, essendone stato spogliato nel dicembre da Malatesta e Galeotto dei Malatesta; i quali, meditando di estendere il loro dominio su tutta la Marca, posero assedio ad Ancona. Bartolo si preparò invero a resistere, ma a nulla valse il coraggio contro il tradimento di Vanni da Tolentino da cui furono dischiuse le porte ai nemici. Ma fu peggio ancora per lui che i cingolani si sollevarono e tutta cacciarono la famiglia Cima assoggettandosi anch'essi al dominio dei Malatesta; e nella oscurità dei fatti che accompagnarono cotale avvenimento, non parmi fuor di proposito il ritenere che la strage di alcuni dei Rollandi accaduta in quel tempo e attribuita a crudele vendetta di Bartolo e dei suoi, fosse non ultima causa alla sollevazione del popolo. Bartolo, l'unico superstite tra i figli di Pagnone, era considerato siccome il capo della famiglia: quindi è che da lui vedonsi segnati, a nome comune, tutti gl'istrumenti che furono stipulati per ritornare alla patria. Primo per data è quello del 1351 col quale aderì alla lega da Giovanni Visconti arcivescovo di Milano stretta cogli Scaligeri e con altri tiranni della Lombardia e delle Romagne, essendogli stato promesse di essere ristabilito in Cingoli con autorità di signore: ma l'unico vantaggio che ne ritrasse fu la restituzione dei beni che gli erano stati confiscati, la quale fu pattuita nel trattato di pace fatto dai Visconti coi fiorentini in Sarzana il dì 31 marzo 1353, a condizione peraltro che veruno dei Cima potesse più di quattro miglia avvicinarsi a Cingoli. Ebbe così luogo di fare esperimento del vantaggio che ritraggono i piccoli signori dall'alleanza coi grandi; ma non ne trasse profitto, percioccè poco dopo si strinse in alleanza coi Malatesta, scordando le ingiurie patite, ed anche cogli Ordelaffi e con Gentile Da Mogliano per resistere al cardinale Egidio Albornoz mandato da Innocenzo VI a tornare suddite alla Chiesa le città e terre usurpate da diversi tiranni. La sorte delle armi non fu favorevole ai collegati, per la qual cosa si rese necessario ai vinti di sottomettersi; e Bartolo, chiesta ed ottenuta assoluzione dalle pene ecclesiastiche e temporali nelle quali era incorso, giurò fedeltà alla Chiesa nelle mani del cardinale il dì 1 giugno 1355. Cingoli ancora chiese perdono e gli fu concesso, ed il legato volle che ristabilito vi fosse il reggimento a Comune sotto la protezione delle sante chiavi. Non mi consta che per allora fosse concesso ai Cima di tornare alla patria, e sembra anzi che ne avessero divieto fino a circa il 1360; erano bensì onorati dall'Albornoz e suoi soldati, perchè sapevano bene che per la depressione della parte ghibellina in Italia nulla poteano sperare se non stessero strettamente uniti alla Chiesa. Anzi il legato mostrò di farne conto, e a Bartolo diè la potesterìa di Gubbio nel 1367; di cui per altro poco potè godere, essendo certo ch'era morto prima del maggio dell'anno appresso.

 


49 - Tanarello
53 - Uguccione
55 - Pagnone
56 - Masio
57 - Benuttino
58 - Cimarello

 

53 - Uguccione

Fu compreso da Urbano VI nella bolla del vicariato, ma egli non ne godè, e assai probabilmente non se ne curò, essendosi già da qualche tempo domiciliato in Ancona.

55 - Pagnone

Seguì coi fratelli le bandiere dell'Albornoz,ma non ho distinte notizie sul conto suo. L'unica cosa che lo riguardi più specialmente è il soccorso portato agli anconitani nel 1382, col quale li messe in grado di conquistare la rocca che un infido castellano avea sottratta alla devozione di Urbano VI a cui obbediva il Comune. Nel 1388 fu presente in Matelica alla riconciliazione di Bartolommeo Smeducci col cugino Onofrio vicario di Sanseverino che fu celebrata con molta solennità alla presenza dei principali signori della Marca. Morì prima del 1392

56 - Masio 

Parlando di lui nulla potrei aggiungere a quel che accennai sotto il nome di Bartolo suo zio fino al giorno della sottomissione al legato; ma da quel dì in poi, schieratosi lealmente sotto le sue bandiere, combattè per lui, e seppe conciliarsene la stima in modo da ottenere un segnalata tratto di fiducia, qual si fu quello di essere eletto suo vicario in Orvieto nel 1361. Ignoro per quanto tempo durasse in quell'officio, e mi è noto soltanto che nel 1367 il cardinale Anglico De Grimoard, succeduto nella legazione all'Albornoz, lo delegò alla potesterìa del Borgo Sansepolcro che ritenne per varii anni. Manco dipoi notizie sul conto suo fino al 1375, nel quale anno fu chiamato dai fiorentini alla potesterìa del loro Comune per sei mesi cominciati il dì 10 di ottobre. Fu ben ponderata la scelta fatta di lui da quei bene avveduti repubblicani; i quali essendo in guerra con papa Gregorio XI, avevano bisogno di mettere in gioco il malcontento di un barone spossessato dalla Chiesa per aprirsi la via a trovare degli alleati nelli stati stessi di lei. Infatti i Cima, fidati in quelle aderenze che non mancano giammai a chi ha tenuto per alcun tempo alto stato, assistiti dalle milizie di Bartolomeo Smeducci vicario per la Chiesa in Sanseverino, tentarono e riuscirono a levare tumulto in Cingoli ribellandolo alla Chiesa e facendosi acclamare signori. Mentre questo facevasi, Masio stava in Firenze a vigilare al buon andamento delle cose; ma il non avere impugnata la spada non valse a salvarlo dalle scomuniche fulminate a nome del papa. Assicurato poi il dominio per la pace del 1378, godè Masio maggior considerazione dei suoi fratelli, non tanto per essere il primogenito quanto ancora per essere di più vasta mente degli altri. Morì prima del 1386. 

Si sposò nel 1360 con Antonia di Giacomo di Taddeo Pepoli signore di Bologna. 

57 - Benuttino

Dopo la sottomissione al legato fatta da Bartolo suo zio a nome della famiglia, ei gli portò il soccorso della sua spada e contribuì non poco ad assicurargli le vittorie che riportarono alla sudditanza della Chiesa cotanta parte di stato. Sperava, e forse ancora gli era stato promesso, che premio della lealtà sarebbe stato il ritorno in Cingoli, se non cogli attributi della sovranità, almeno colla usata supremazia; ma quando vidde delusa la sua aspettativa, si accese di mal talento verso il governo degli ecclesiastici. Per conseguenza non fu difficile alla repubblica fiorentina di trarlo nei suoi interessi durante la guerra contro Gregorio XI; e pattuì con essa alleanza e soccorsi quando i Cima avessero conseguito per opera di lei di essere rimessi in seggio. Infatti nel dicembre del 1375, Benuttino insieme coi fratelli, scortato da numerose schiere di armati alle quali imperava Bartolommeo Smeducci allora soldato dei fiorentini, irruppero improvvisi in Cingoli, corsero la terra e se ne federo acclamare signori. Non fu senza resistenza per parte delle soldatesche del papa; ma furono vinte da Benuttino, volte in fuga ed inseguite fino ad Argiano; e liberatesi di esse, presto ebbero i Cima ridotto in sudditanza l'antico territorio di Cingoli, aggiungendovi Montefilottrano e altri luoghi. Il vescovo di Osimo, per ordine di Gregorio XI, fulminò scomuniche, pubblicò condanne a pene corporali, dipoi sottopose Cingoli all'interdetto: ma i Cima se ne risero e, fedeli ai patti giurati colla repubblica di Firenze, si apprestarono a combattere contro il pontefice. Sembra peraltro che le armi ecclesiastiche prevalessero e che nel 1377 Cingoli tornasse a forza in devozione della Chiesa, essendo certo che nel luglio di quell'anno vi dettava leggi un legato; ma fattasi nel 1378 la pace, dopo che Urbano VI fu eletto pontefice, i Cima siccome alleati dei fiorentini vi furono compresi; anzi colsero il frutto sperato dalla loro ribellione, perchè il pontefice avendo bisogno di farsi degli alleati per resistere all'antipapa Clemente VII, non solo diè ad essi il perdono, ma li nominò inoltre suoi vicari in Cingoli e nel territorio. Rassodati così in signoria, i Cima si mostrarono avidi di aumentare il loro piccolo stato; e nel 1380 guerreggiavano aspramente con il Comune di Osimo per la negata restituzione di Montefilottrano e il tentato acquisto di Montecchio; ma leggendo nelle storie che si posero sotto la protezione del Comune di Ancona, il quale perciò si fece mediatore di pace, mi fa ritenere che la lotta non volgesse gran fatto ad essi favorevole. Fu conseguenza di quella sottomissione il soccorso di 150 fanti che i Cima inviarono agli anconitani nel 1382, quando si trovarono alle prese con Lodovico d'Anjou spinto dall'antipapa ai danni di quei luoghi che riconoscevano l'autorità del suo avversario. Ogni legame verso Ancona cessò nel 1393, quando Bonifazio IX, con bolla del dì 14 maggio, nominò Benuttino, restato solo superstite tra i figli di Tanarello, vicario della Chiesa in Cingoli e suo distretto, per dodici anni e per l'annuo censo di 150 fiorini d'oro di camera; comprendendo nella investitura ancora il figlio ed il nipote di Benuttino. E' detto in quel documento che il Cima già da varii anni teneva il governo, e che lo reggeva in modo degno di molta lode; e probabilmente lo teneva dal 1386 per la morte di Masio ch'era di tutti primogenito. Agli occhi nostri è un usurpazione quest'atto di Benuttino perchè vivevano ancora i figli di Masio, i quali furono dimenticati mentre potevano accampare diritti migliori dei suoi essendo nati appunto dal primogenito; ma deve riflettersi che di faccia alla Chiesa concedente non esisteva verun diritto agnatizio nei Cima e che solo derivava dalle sue concessioni; concessioni che alle debite scadenze poteva il pontefice restringere o allargare a suo talento e farle a chi più gli paresse a proposito per gl'interessi della sedia pontificale. Benuttino, appena assodato in signoria, strinse alleanza con diversi Comuni e nobili della Marca per resistere alle bande dei venturieri Brettoni; le quali vinte da Biordo Michelotti in scontri parziali, furono poi da lui stesso esterminate, quando occupato a tradimento Castel Sant'Angiolo, tentarono ancora d'impadronirsi di Cingoli. Nel 1395 dotò il suo piccolo stato di nuovi statuti, i quali furono confermati da Matteo Dell'Amatrice giudice della Curia di Andrea Tomacelli marchese della Marca. Il signore di Cingoli fu molto in grazie a Bonifazio IX, il quale lo distinse col dono della rosa d'oro, e lo volle senatore di Roma nel 1400. Non compì peraltro l'officio, essendo morto il dì 14 ottobre dell'anno istesso. Il popolo romano l'onorò di magnifici funerali, e fece apporre pomposo elogio sulla pietra che copriva le sue ossa nella chiesa di Araceli. L'Avicenna storico di Cingoli lo accusa di essersi arricchito soverchiamente colla prepotenza e colla frode, e narra come fosse solito di fare assolvere le persone inquisite di qualche delitto a condizione che gli cedessero a vilissimo prezzo le loro terre: accusa gravissima che non ha l'appoggio di verun documento, e tanto meno credibile per averla mescolata l'autore con tante altre imprudenti menzogne a danno dei Cima.

Si sposò con Ambrosina di Giovanni conte Dell'Anguillara.

58 - Cimarello

Nulla saprei dire di lui che comune non sia ai suoi fratelli tranne il vicariato di Terni e la potesterìa di Spoleto che tenne a nome della Chiesa nel 1361 e nel 1362. Lo credo morto intorno al 1363 non trovandolo più rammentato dopo quell'epoca.

Si sposò nel 1352 con Dea di Nallo Guelfoni da Gubbio

 


56 - Masio
60 - Elisabetta
61 - Antonio
62 - Cima
63 - Giacomo
64 - Ugantonio
65 - Samaritana

 

60 - Elisabetta

Rimasta unica superstite della casa dei Cima, lasciata erede dei suoi beni e dei suoi diritti da Francesca sua cugina, morì decrepita dopo il 1466, lasciando ai figli i privilegi derivati dalla sua casa e i pochi averi che per la sua dote aveva potuto salvare dalle confische e dalle usurpazioni di particolari persone. I suoi discendenti presero il cognome dei Cima, ignoro se per volontà di lei o di Masio suo nipote domiciliato in Osimo, ossivero per affettare nobiltà superiore agli altri nella città in cui presero stanza. Conservarono peraltro l'avito stemma delli Smeducci al quale unirono due cime di palma; e appunto per l'arme distinguevansi da una famiglia omonimo col dirsi Cima della Scala.

Sposata nel 1399 con Biagio di messer Bartolommeo Smeducci vicario della Chiesa in Sanseverino

61 - Antonio

Ignoro il motivo per cui soffrì lunga prigionia, e conosco il fatto soltanto per averne fatta menzione la madre nel testamento. nel 1386 egli e Cima suo fratello, il dì 17 di giugno, venderono alcune terre nella contrada di s. Anastasia per dare la dote a Samaritana loro sorella: ed altri atti vi sono che gli risguardano sino al 1389. Ma dopo quell'anno non conosco altra carta che li rammenti, avendo probabilmente dovuto abbandonare patria dopochè Benuttino loro zio volle concentrato nella sola sua linea tutto il dominio. Forse tentarono di ribellarsi all'atto ingiusto e ad essi dannoso; forse il signore di Cingoli li credè capaci di farlo: ed è ben noto che agli occhi di un tiranno il semplice sospetto è una prova.

62 - Cima

Morto prima del 1389

63 - Giacomo

Non si hanno particolari notizie di lui: ma non sono lontano dal ritenere che sia quel Giacomo Cima di cui si hanno memorie in Osimo nei primi anni del secolo XV, passato forse colà per le sventure della sua famiglia

65 - Samaritana

Fu maritata nel 1386, ma ignoro il nome di suo marito

 


63 - Giacomo
66 - Masio
67 - Bartolommeo

 

66 - Masio

Non sono certo che sia questo il suo luogo, e conviene che dichiari esservi molta oscurità intorno a questa linea. Erasi fatto cittadino di Osimo, e lo vediamo incaricato da quel Comune di trattare alcuni affari con Staffolo nel 1462, e dipoi gonfaloniere nel 1480. Probabilmente morì senza prole, lasciando eredi i figli di Elisabetta sua zia, che perciò presero il cognome dei Cima.

67 - Bartolommeo

Era dei rettori del Comune di Osimo nel 1475

 


57 - Benuttino
68 - Giovanni
69 - Anfelisia

 

68 - Giovanni

Successe al padre nel dominio senza contrasti, e nel 1405 ebbe conferma del vicariato. Militò per Innocenzio VII nella guerra contro Ladislao re di Napoli, laonde fu compreso nel trattato di pace del 1406. Andato nell'anno istesso con nobile comitiva a Viterbo per visitare il pontefice, volle questi che lo accompagnasse a Roma, e che nel solenne ingresso gli portasse davanti il gonfalone della Chiesa; di più, in benemerenza dei servigi resi alla santa Sede, gli donò la rosa d'oro. Gregorio XII lo elesse senatore di Roma nel 1407, ed entrò in officio il dì 3 di giugno; ma dopo due mesi, essendo stato costretto il papa a fuggirsene, desiderò che Giovanni lo scortasse fino a Viterbo: ed ei lo compiacque, rinunziata prima la sublime dignità nelle mani di Pietro Annibaldeschi. Mentr'era in Viterbo ebbe notizia della morte del figlio, per la quale dovè tornarsene a Cingoli. Trovò la Marca Anconitana tutta in sconvolgimento perchè l'antico rettore, Lodovico Migliorati, pretendeva di mantenersi a forza in officio e di non cedere il potere al vescovo di Montefeltro destinatogli a successore, istigandolo a ciò Ladislao re di Napoli: e Giovanni postosi nell'animo di tornarvi la pace, si fece mediatore tra Lodovico e Braccio Fortebracci che sosteneva vittoriosamente le parti della Chiesa contro di lui, e riuscì nell'intento. Voltosi allora il Fortebracci ai danni degli Smeducci, che aveano seguite le parti dell'avversario e dato ricetto in Apiro ad alcune masnade di venturieri congedati da lui, andò ad assalire quel castello, e lo prese; poi lo cedè al Cima per 5.000 fiorini d'oro, avendolo fors'egli segretamente incitato alla preda. Ma gliene incolse danno, perchè sospettando che Braccio potesse tentare qualche impresa contro di lui, assoldò a sua volta li stessi mercenari che il Fortebracci avea vinti, e quando combattevano per il Migliorati e quando dipoi per li Smeducci; e li mandò a presidiare il castello di Apiro. Irritato Braccio per tali atti, venuta la primavera del 1408, entrò con grosso numero di soldati nel territorio di Cingoli e si spinse fin presso le mura della città: ma quivi se gli fece incontro Giovanni Cima, il quale venne con lui a sanguinosa battaglia che durò intiero giorno, e con sua piena vittoria, essendogli riuscito di respingere il nemico fino a Roccacontrada. Ma durante questa, li Smeducci, aiutati dai Malatesta, riuscirono a sorprendere Apiro, e a tornarselo a devozione; la qual cosa decise il Cima a riconciliarsi col Fortebracci. Fu tra i patti che dovessero uniti andare al riacquisto di quella rocca; ed infatti ci si portarono forti di numeroso stuolo di agguerriti guerrieri il dì 12 ottobre 1408, e la espugnarono nonostante che fosse valorosamente difesa. Vi ristabilì Giovanni il suo dominio, ma non per questo quetarono le cose: e per quattro anni durò tra lui e li Smeducci una di quelle piccole guerre, così fatali e dannose perchè piene di rappresaglie, di stragi e di prede continue. Nel 1412, essendosi forse determinate le parti a rimettersi al giudizio del rettore della Marca, che altrimenti non saprei dirne il perchè, e forse ancora per intimazione fattane da Gregorio XII, Apiro fu dal Cima depositato nelle mani di Carlo Malatesta; il quale finì col restituirlo ad Antonio Smeducci, per essere stata, assai probabilmente, a lui favorevole la sentenza. Nè sarebbe fuori di proposito il ritenere che Giovanni fosse indotto a più miti propositi dalla ribellione dei suoi vassalli di Staffolo, ribellione che domò col ferro e col fuoco senza pietà. Nello scisma dei tre pontefici egli si dichiarò a favore di Giovanni XXIII, dopo che per opera di Gregorio XII ebbe perduto il dominio di Apiro; e da quel papa ebbe conferma di tutti i privilegi concessigli dagli antecedenti pontefici, con bolla data in Firenze il dì 25 aprile 1413. Morì nel giugno del 1422, incerto se di morte naturale o di veleno propinatogli da una crudele consorte: nè mancano scrittori che narrino come dessa, fattolo assopire con un narcotico, lo facesse ancor vivo chiudere nel sepolcro. Scrissero di lui i suoi sudditi, quando più non potevano temerne ed avevano anzi interesse a fare aggiudicare al Comune i suoi beni, che esercitò potestà tirannica, facendo porre a morte per i più lievi motivi; che le carceri ed i sotterranei dei suoi castelli teneva ripieni d'infelici che vi faceva gettare a capriccio, o per aver pretesto di confiscare i loro beni; che obbligava le genti a lasciarlo erede; che infine occupò prepotentemente molte possessioni e cose mobili del Comune: fatti questi sui quali può esservi molta esagerazione, ma che in qualche parte erano veri, avendosi prove, per documento del 1425, che avea costretto una tale Paoluccia vedova di Niccolò Tosti a lasciarlo suo erede, mentre per l'ultima volontà del marito avrebbe dovuto legare al monastero di s.a Caterina di Cingoli quei beni che per quell'atto si volevano rivendicare.

Si sposò una prima volta la figlia di un Antonio Simonetti da Jesi. 

Un secondo matrimonio lo contrasse il 22 gennaio del 1404 con Rengarda di Niccolò Filippo Brancaleoni signore di Casteldurante. Queste nozze furono solennizzate in Cingoli con grandi feste, alle quali presero parte i rappresentanti dei Comuni, e quasi tutti i baroni della provincia. Donna senza pietà e di sfrenata ambizione, si rese rea di atroci delitti, se è vero che affrettò la morte al marito ed ai figli. Appena restata vedova e reggente dello stato, fu richiesta in moglie da Antonio di Onofrio Smeducci vicario di Sanseverino per uno dei figli suoi, ed ella lo tenne a bada finacchè non si sentì forte abbastanza per potergli resistere se si fosse dichiarato nemico; ma assicuratasi dell'assistenza di Braccio Fortebracci, gli rispose con un rifiuto, e si unì invece ad Anselmo di Ranieri Montemellini da Perugia cugino di Braccio, mentre ad altri due della stessa agnazione promesse le figlie sue. Morti i figli nel 1423, usurpò col marito l'assoluto dominio, valendosi all'uopo delle milizie braccesche che avea segretamente introdotte nella città, guidate da Giacomo degli Arcipreti: temendo essa non tanto dei cingolani quanto di Biagio Smeducci marito di Elisabetta Cima, il quale assistito dal vicario di Sanseverino poteva accampare dei diritti se non alla signoria, alla tutela almeno della figlia primogenita del defunto Giovanni. Quello che essa temeva si avverò non appena Braccio ebbe richiamate le truppe, che gli erano necessarie per altre imprese, avvegnachè i cingolani si sollevarono, e poi assediarono l'odiata donna che si era rifuggita nella fortezza. Vi resistè per alcun tempo, sperando che sarebbe stata soccorsa, ma venuto il settembre del 1424, vedendo inutile ogni ulteriore aspettativa per la morte di Braccio, e che ogni giorno andavano peggiorando le sue condizioni, chiese alfine di capitolare, incaricando delle trattative a suo nome un tal da Perugia, quello che fu in Cingoli l'autore della famiglia Clavoni. Potè ottenere soltanto sicurtà della persona per sè e per tutta la sua famiglia e la facoltà di potere asportare tutto il mobile, con quante vettovaglie potessero bastarle per condursi a Perugia. Ma invece di andare al suo destino, occupò a tradimento il forte luogo di Castreccione, ch'era patrimonio dei Cima, dal quale fu non molto dopo cacciata con un fortunato strattagemma che accennano ma non spiegano li storici.

69 - Anfelisia

Badessa nel monastero di s.a Caterina di Cingoli nel 1395. Ottenne dal pontefice che al suo fosse unito il convento di s. Giacomo di Col di Luce.

 


68 - Giovanni
70 - Benuttino
71 - Lodovico
72 - Anfelisia
73 - Giovanbattista
74 - Ambrosina
75 - Francesca

 

70, 71 - Benuttino, Lodovico

Morti nell'inverno del 1423, non senza sospetto che li avesse fatti avvelenare colui che fu secondo marito alla madre loro

72 - Anfelisia

Sposata con Francesco di Ranieri Montemellini da Perugia

73 - Giovanbattista

Nato nel 1392. Premorto al padre il dì 11 agosto 1407, probabilmente fatto morire dalla matrigna

74 - Ambrosina

Sposata con Cherubino di Ranieri di Montemellini da Perugia

75 - Francesca

Quando fu cacciata la sua matrigna da Cingoli tutti i suoi beni furono usurpati da Pietro Emili-Colonna il quale essendo rettore della Marca per Martino V ne profittò per ritenersi la signoria di Cingoli, facendo, a nome della s.a Sede, alcune capitolazioni cogli abitanti, sottoscritte il dì 10 settembre 1424. Fu tra quelli l'obbligo assunto dalla Chiesa di non dare più giammai la città in vicariato; di non rimettere in Cingoli i fuoriusciti e specialmente i superstiti dei Cima; con facoltà se si accostassero alle mura di punirli fino alla morte. Questi superstiti di casa Cima essere non potevano che la misera figlia di Giovanni di Benuttino, Barnabò di Uguccione, li Smeducci figli di Elisabetta di Masio, e qualcuno dei fratelli di lei. Durò il Colonna nella sua usurpazione fino al 1431, nel quale anno fu revocato dal suo governo; ed allora Francesca messe in campo fondate pretensioni sul patrimonio dei suoi maggiori. Non così peraltro la pensava il Comune di Cingoli; il quale mosse prima ricorso davanti al vescovo di Recanati presidente per la Chiesa nella Marca di Ancona; e profittando dipoi della occupazione che della città aveva fatta Francesco Sforza, sottraendola alla potestà della Chiesa, a lui ricorse con umile petizione in cui tutti si enumerarono i delitti che faceano meritevoli i Cima della confisca, chiedendo perciò la devoluzione a sè di tutto il loro retaggio: e fu ben naturale che il novello signore, per rendersi benevoli gli abitanti, compiacesse alla loro domanda con suo atto del dì 12 settembre 1434; che confermò, quando fu dal pontefice eletto marchese della Marca, con diploma dato in Fabriano il dì 3 di febbraio 1436. Non quetava pertanto Francesca per tali atti, e minacciando liti che potevano volgere non a buon fine per il Comune, fu giudicato espediente di troncarle con un istrumento di transazione che fu stipulato il dì 8 settembre 1436; per il quale rinunziando la Cima a tutti i diritti che le competevano e facendone cessione al Comune, ottenne da questo la restituzione di alcuni tra i beni aviti, e la esenzione su questi,e su quelli che avrebbe in seguito posseduti, da ogni peso reale e personale non tanto per lei, quanto ancora per i suoi eredi e successori. Altra convenzione stipulò poi il dì 9 ottobre 1439, per la quale ottenne nuovi terreni, previa cessione di ogni altro suo diritto, salvi quelli che le competevano su Staffolo, in Sassoferrato ed in alcuni altri castelli; ed ottenne del pari la conferma della già concessa esenzione. Da questo istrumento si scorge che nel disfacimento dei Cima non pochi eransi ingranditi sulle loro rovine, e che dei beni aveano avuta la parte loro anche i conventi di frati e di monache, non meno che diverse famiglia, tra le quali, certo non ultima, fu quella di Francesco Silvestri. Queste sue rinunzie e la donazione ancora di Francesco Sforza furono poi confermate d'ordine di papa Eugenio IV, con atto del dì 11 gennaio 1444, dal cardinale Lodovico Scarampi camarlingo della s.a Chiesa, insieme con altri capitoli concordati con il Comune di Cingoli; e più tardi da Callisto III, con bolla del dì 13 giugno 1455. D'allora in poi l'accordo tra Francesca e il Comune fu inalterato, a segno che sapendola i cingolani nel 1460 minacciata di assedio in so quale sua rocca, scrissero al legato della Marca raccomandandogli caldamente di provvedere alla sicurezza di lei. Testò nel palazzo di Bissina il dì 18 ottobre 1466, chiamando erede la cappella del Crocefisso che aveva eretta nella chiesa di s. Francesco di Cingoli:  ma il dì 30 dicembre dell'anno medesimo revocò il testamento e, lasciate col nuovo diverse terre per il mantenimento della cappella, scelse a suoi eredi Elisabetta sua cugina con Masio e Bartolommeo di lei figli. Morì in Cingoli non molto tempo dopo, e fu sepolta nella sua cappella di s. Francesco.

Si sposò nel 1428 con il Conte Luigi di Francesco Degli Atti signore di Sassoferrato.

 

 


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