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Albero
genealogico- Tavola II
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47
- Pagnone |
Era
ascritto al collegio dei giudici, e per conseguenza uomo
di toga. La pace stabilita in Cingoli tra guelfi e
ghibellini ebbe corta durata, e ben presto le due parti
corsero nuovamente alle armi. Non si conoscono i precisi
particolari di queste piccole guerre: abbiamo soltanto gli
atti emanati dai prelati che reggevano la provincia per la
Chiesa per comporre le discordie e punirle. Dopo una lunga
lotta fu imposta una pace da Giacomo da Razzano vicario
della Marca per Carlo di Valois nel principio del
1302, e segnarono pei Cima, insieme con Pagnone, e
Taddeo di messer Rinaldo e Ruggeruccio di Attone. Altra
pace fu stipulata nel 1303, a mediazione di Antonio D'Orso
vescovo di Fiesole, essendo le parti venute nuovamente a
contesa appena partito Carlo di Valois; e nell'anno
istesso ebbe quel prelato a pubblicare una sentenza di
condanna, probabilmente contro i guelfi perchè primi l'aveano
violata. Certo è che nel 1304 questa fazione preponderava
in Cingoli, e che Pagnone teneva la città a posta sua,
allorquando Appigliaterra Mainetti, sentendosi più
forte per gli aiuti che ottenne da Sanseverino, levò a
rumore la città, imprigionò il potestà ch'era Gualtieri
dei Bardi, fiorentino e guelfissimo, e lo derubò
dei suoi arnesi; cacciò poi a furore Pagnone e tutti dei Cima,
molti uccise dei suoi seguaci, saccheggiò e distrusse le
case loro. Rambaldo conte di Collalto rettore della
Marca Anconitana fulminò severa condanna contro i Mainetti
ed i complici; ma il trasferimento della sedia pontificia
ad Avignone indusse la curia a recedere da tanto rigore,
per non alienarsi affatto l'animo di coloro che dominavano
le terre sulle quali la Chiesa pretendeva dominio; e
perciò Bertrando Du Goth, nipote del pontefice e
per lui vicario in Ancona, con sentenza del 18 giugno
1306, diè assoluzione al Mainetti, condonandogli
qualunque pena, ed ordinando che si ponesse un velo sopra
il passato purchè pagasse una multa. Sembra che in quella
circostanza, o per qualche altro tumulto seguìto non
molto dopo, la Chiesa riprendesse predominio in Cingoli, e
vi stabilisse un governo popolare sotto la sua protezione
dopo di aver cacciati i Mainetti ed i Cima;
avendosi del 1307 alcuni statuti, diretti principalmente
al mantenimento della pubblica quiete e perciò ostili ai
magnati, redatti da 20 popolani scelti dal parlamento del
Comune e approvati dal potestà destinatovi dal rettore
della provincia. In quell'anno Pagnone era capitano del
popolo di Siena, dove prese parte alla guerra contro i
ghibellini di Arezzo, ma non aveva dismesso il desiderio
della vendetta contro i Mainetti; e stavasi queto
perchè non si sentiva forte abbastanza per ritentare la
prova. Appena peraltro si sentì in grado di farlo,
nell'inverno del 1308, adunati segretamente i suoi seguaci
e circondato da oste numerosa per cavalli e per fanti,
assalì improvviso e di notte le porte di Cingoli, le
ruppe a forza, corse le piazze e le vie, invase il
pubblico palagio cacciandone gli officiali; ed
impossessatosi delle carte tutte del Comune, lo
saccheggiò, lo arse; occupò dipoi il palazzo del popolo
nonostante che fosse valorosamente difeso ed imprigionò
il capitano; si rese infine padrone della città. A tanto
eccesso non poteano restarsi in silenzio i rettori
ecclesiastici; quindi è che Martino da Fano giudice dei
malefizi nella Marca, il dì 18 marzo dell'anno stesso,
diè sentenza con cui condannò Pagnone, il fratello ed
altri 37 dei suoi aderenti alla morte, a potere essere
impunemente offesi negli averi e nelle persone, ed a
pagare alla camera apostolica mille marche d'argento per
ciascheduno, col bando del capo se non volessero o
potessero pagar quel denaro. Narrasi nella sentenza che il Cima ribellò la terra della Chiesa, e questo
vorrebbe dire che almeno per poco tempo, se ne tolse in
mano il dominio: ben vuol soggiungersi peraltro che non lo
ritenne lungamente perchè la citata condanna lo indica
fuoruscito. Dovè peraltro ottenere presto il perdono e
con esso la facoltà di tornare alla patria, dove si fa
menzione di lui nelle pubbliche carte, intorno al 1312,
per lo zelo con cui si occupò a reintegrare il Comune di
Cingoli negli antichi confini, che nei passati
sconvolgimenti erano stati violati dalle città più
vicine, in specie da Osimo; fatto ch'era per lui di sommo
interesse perchè, conscio delle sue mire ambiziose, bene
capiva che difendeva i suoi futuri diritti difendendo
quelli dei cingolani. Non molto dopo gli convenne di
ricalcare la via dell'esilio perchè il Mainetti
con i suoi ghibellini, ripreso rigoglio per la presenza di
Arrigo VII in Italia, riuscì a tornare in Cingoli
cacciandone Pagnone coi suoi partigiani; ma le istorie si
limitano ad accennare l'avvenimento senza esporre
circostanze. Durò l'esilio per dieci anni, durante i
quali sappiamo del Cima soltanto che resse Orvieto
qual potestà nel 1314, che in Perugia fu potestà nel
1318, e capitano del popolo in Orvieto nel 1323: abbenchè
su queste magistrature esercitate in queste città abbia
motivo di non avere certezza, non trovandone fatta
menzione dal Manenti che ne espone la serie. Fu
questo l'anno del suo ritorno alla patria, e dovè
certamente essere accompagnato da violenze, sapendosi di
condanne pronunziate a suo danno e dall'assoluzione
concessagli da Amelio rettore pontificio della Marca
d'Ancona. Ma per viemeglio afforzarsi giudicò Pagnone
ch'espediente fosse di ottenere conferma da Giovanni XXII
di questo decreto assolutorio; al quale oggetto gli
deputò ambasciatori ad Avignone. Il papa, volendo meglio
conoscere i fatti, delegò questo affare a Giberto
arcivescovo d'Arles e a Francesco Silvestri da
Cingoli vescovo di Firenze: i quali dettero sentenza, che
il pontefice approvò con bolla del dì 27 agosto 1324.
Per quella fu il Comune di Cingoli condannato a pagare
entro 18 mesi 5.000 fiorini d'oro di Firenze, e
confermandosi l'esilio perpetuo di Appigliaterra Mainetti
e dei suoi seguaci; fu posta a carico di essi la più gran
parte di quella multa; fu ordinato che si dovessero
atterrare due fortilizi soprastanti alla città spettanti
a private famiglie, con questo però che, in luogo idoneo,
da scegliersi dal rettore della Marca, si ergesse a spese
comuni una rocca a servizio della Chiesa romana, da
custodirsi da castellani nominati dai governatori della
provincia e pagati dai cingolani; e finalmente, a garanzia
della multa, fu preso in pegno il castello di Castreccione.
In nessuno di questi atti comparisce il nome di Pagnone,
il quale peraltro tutto dirigeva dietro la scena, e tutti
sono fatti a nome del potestà, dei priori, dei 125
buonomini, del consiglio generale e dello speciale.
Orvieto lo desiderò di nuovo per suo rettore nel 1333, ma
non vi ebbe tranquillo governo, perchè la città fu
sconvolta dalle fazioni; le quali, venute alle mani fra
loro, la funestarono di stragi. Le memorie di Cingoli gli
attribuiscono altri offici e tra questi il capitanato del
popolo in Firenze nel 1326 e nel 1329, ma non trovano
verun riscontro nei documenti fiorentini, i quali anzi
notano in quegli anni l'officio esercitato da altri. Era
piuttosto del suo interesse di starsi in patria e di
vigilare continuo sugli avvenimenti del natìo paese; e
pare che lo facesse avendo curato nel 1325 la compilazione
dei nuovi statuti, nei quali è nominato il primo tra i
presenti alla loro pubblicazione. Il più antico documento
in cui si vede Pagnone sedere a capo del Comune di Cingoli
è del 1332, quando cioè, a nome del papa, fu presentato
un breve del dì 3 di maggio al consiglio generale, alla
presenza di Pagnone, di Giovanni e Tanarello figli, e di
Ramberto fratello suo. Volle il pontefice con quell'atto
premiare la devozione alla Chiesa prestata in molte
occasioni dai Cima e dalla città; e più
specialmente quando i fuoriusciti, convenuti nella vicina
terra di Apiro, tentarono che Cingoli si sollevasse per
opera dei loro fautori, togliendo a pretesto la presenza
di un esattore inviato dal rettore della Marca per
ottenere il pagamento di una colletta; sollevazione
tentata si, ma fortunatamente repressa, sebbene con
spargimento di sangue: per le quali cose condonò 2.000
fiorini della multa imposta nel 1324, accordando la
dilazione di due anni al pagamento della somma residua. Fu
quello l'ultimo tentativo fatto dai Mainetti e dai
ghibellini per tornare in potere; ma fruttò ad essi
sventura, mentre fu cagione di fortuna pei Cima,
perchè appunto dopo il 1332 cominciò Pagnone a prendere
parte agli affari siccome capo della città e del Comune,
e ad essere come tale riconosciuto dai pontefici:
dovendosi ciò dedurre da un istrumento di composizione
stipulato con Pietro da Gallicata che fu rettore della
Marca dal 1333 al 1336, e perciò sicuramente da
riportarsi a quel tempo. E' naturale che Pagnone
desiderasse di dare appoggio a quei potenti che, a pari di
lui, volevano farsi padroni dei propri concittadini;
laonde non deve recar meraviglia se sappiamo che nel 1339
spedì i suoi figli con grossa schiera di militi verso
Matelica per appoggiare i tentativi di Borgaruccio Ottoni
che aspirava alla tirannia della patria; appoggio che
riuscì invece di danno, perchè l'ambizioso fu massacrato
dal popolo insieme col figlio. Pagnone poco gli
sopravvisse, constando da un documento del dì 25 febbraio
1340 ch'egli avea già pagato il suo tributo a natura.
Narra lo storico di Cingoli, ed altri autori con lui, che
Lodovico il Bavaro gli diè diploma di vicario imperiale
sulla sua patria, siccome vuolsi che lo concedesse a molti
altri tiranni della Marca Anconitana e delle Romagne: ma
questo e gli altri consimili documenti giammai furono
vantati o prodotti dai pretesi vicari, e vi contrasta la
critica non meno che il silenzio degli scrittori
contemporanei. |
47
- Pagnone |
48
- Giovannuccio |
49
- Tanarello |
50
- Vanni |
51
- Forestiera |
52
- Bartolo |
48
- Giovannuccio |
Era
presenta in Cingoli insieme col padre alla presentazione
fatta del breve pontificio così benevolo alla città del
1332. Dovè certamente essere uomo di coraggio ed in molta
reputazione nella provincia, dove tenne la potesterìa di
varie terre; tra le quali fu Ascoli, in cui risiedeva
quando venne a morte Pagnone. Colà lo raggiunsero gli
ambasciatori del Comune di Cingoli, dai quali fu invitato
a tornare in patria per esservi potestà e capitano di
guerra, titoli sotto i quali nascondevasi una signoria
vera e propria, e che avea la tacita acquiescenza dei
papi. Ed infatti se non avesse potuto a sua posta disporre
dei soldati del Comune non sarebbe accorso nel luglio del
1348 a soccorrere gli anconitani; i quali decimati dalla
orribile pestilenza dell'anguinaia, aveano, per aggiunta
di mali, veduta distruggere una considerevole parte della
loro città da un incendio divoratore che durò per
intieri tre giorni. Di questo benefizio tanta riconoscenza
sentì il Comune di Ancona, che tutta volendo
attestargliela, lo elesse con onorevole decreto
all'officio di potestà. Poco peraltro ei godè della
novella dignità, perchè lo colse la morte dopo appena
tre mesi il dì 31 di ottobre dello stesso anno; e si ebbe
bell'attestato dell'affezione dei suoi amministrati quando
decretarono che fosse armato cavaliere nella sua bara, e
dopo magnifici funerali, seppellito a spese pubbliche
nella cattedrale di s. Ciriaco presso l'altare di s.a
Lucia. |
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49
- Tanarello |
Scarse
sono le notizie che lo concernono. Fu potestà di Orvieto
nel 1343, ma non vi esercitò autorità che di nome
perchè la somma delle cose era tutta concentrata nelle
mani di Matteo degli Orsini. Morì, e forse di
pestilenza, intorno al 1348.
Incerto
è il suo matrimonio con Elisabetta di Baldone Silvestri.
Di una moglie di nome Francesca non si hanno ulteriori
notizie. |
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50
- Vanni |
Rettore
della chiesa di s. Lorenzo del borgo di Port'Acera, eletto
il 18 agosto 1350 |
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51
- Forestiera |
Fu eletta
badessa del monastero di s.a
Caterina di
Cingoli, nel 1340, non avendo ancora trent'anni di età.
Morì nel luglio del 1351 |
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52
- Bartolo |
Nel 1341
fu eletto priore della canonica dei santi Quattro Coronati
di Cingoli; ma non appare per questo ch'egli fosse
ecclesiastico. Alla morte del fratello il Comune di Ancona
lo destinò a succedergli nella potesterìa, ma tenne il
governo per brevissimo tempo, essendone stato spogliato
nel dicembre da Malatesta e Galeotto dei Malatesta; i
quali, meditando di estendere il loro dominio su tutta la
Marca, posero assedio ad Ancona. Bartolo si preparò
invero a resistere, ma a nulla valse il coraggio contro il
tradimento di Vanni da Tolentino da cui furono dischiuse
le porte ai nemici. Ma fu peggio ancora per lui che i
cingolani si sollevarono e tutta cacciarono la famiglia Cima
assoggettandosi anch'essi al dominio dei Malatesta;
e nella oscurità dei fatti che accompagnarono cotale
avvenimento, non parmi fuor di proposito il ritenere che
la strage di alcuni dei Rollandi accaduta in quel
tempo e attribuita a crudele vendetta di Bartolo e dei
suoi, fosse non ultima causa alla sollevazione del popolo.
Bartolo, l'unico superstite tra i figli di Pagnone, era
considerato siccome il capo della famiglia: quindi è che
da lui vedonsi segnati, a nome comune, tutti gl'istrumenti
che furono stipulati per ritornare alla patria. Primo per
data è quello del 1351 col quale aderì alla lega da
Giovanni Visconti arcivescovo di Milano stretta
cogli Scaligeri e con altri tiranni della Lombardia
e delle Romagne, essendogli stato promesse di essere
ristabilito in Cingoli con autorità di signore: ma
l'unico vantaggio che ne ritrasse fu la restituzione dei
beni che gli erano stati confiscati, la quale fu pattuita
nel trattato di pace fatto dai Visconti coi
fiorentini in Sarzana il dì 31 marzo 1353, a condizione
peraltro che veruno dei Cima potesse più di
quattro miglia avvicinarsi a Cingoli. Ebbe così luogo di
fare esperimento del vantaggio che ritraggono i piccoli
signori dall'alleanza coi grandi; ma non ne trasse
profitto, percioccè poco dopo si strinse in alleanza coi Malatesta,
scordando le ingiurie patite, ed anche cogli Ordelaffi
e con Gentile Da Mogliano per resistere al
cardinale Egidio Albornoz mandato da Innocenzo VI a
tornare suddite alla Chiesa le città e terre usurpate da
diversi tiranni. La sorte delle armi non fu favorevole ai
collegati, per la qual cosa si rese necessario ai vinti di
sottomettersi; e Bartolo, chiesta ed ottenuta assoluzione
dalle pene ecclesiastiche e temporali nelle quali era
incorso, giurò fedeltà alla Chiesa nelle mani del
cardinale il dì 1 giugno 1355. Cingoli ancora chiese
perdono e gli fu concesso, ed il legato volle che
ristabilito vi fosse il reggimento a Comune sotto la
protezione delle sante chiavi. Non mi consta che per
allora fosse concesso ai Cima di tornare alla
patria, e sembra anzi che ne avessero divieto fino a circa
il 1360; erano bensì onorati dall'Albornoz e suoi
soldati, perchè sapevano bene che per la depressione
della parte ghibellina in Italia nulla poteano sperare se
non stessero strettamente uniti alla Chiesa. Anzi il
legato mostrò di farne conto, e a Bartolo diè la
potesterìa di Gubbio nel 1367; di cui per altro poco potè
godere, essendo certo ch'era morto prima del maggio
dell'anno appresso. |
49
- Tanarello |
53
- Uguccione |
55
- Pagnone |
56
- Masio |
57
- Benuttino |
58
- Cimarello |
53
- Uguccione |
Fu
compreso da Urbano VI nella bolla del vicariato, ma egli
non ne godè, e assai probabilmente non se ne curò,
essendosi già da qualche tempo domiciliato in Ancona. |
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55
- Pagnone |
Seguì
coi fratelli le bandiere dell'Albornoz,ma non ho distinte
notizie sul conto suo. L'unica cosa che lo riguardi più
specialmente è il soccorso portato agli anconitani nel
1382, col quale li messe in grado di conquistare la rocca
che un infido castellano avea sottratta alla devozione di
Urbano VI a cui obbediva il Comune. Nel 1388 fu presente
in Matelica alla riconciliazione di Bartolommeo Smeducci
col cugino Onofrio vicario di Sanseverino che fu celebrata
con molta solennità alla presenza dei principali signori
della Marca. Morì prima del 1392 |
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56
- Masio |
Parlando
di lui nulla potrei aggiungere a quel che accennai sotto
il nome di Bartolo suo zio fino al giorno della
sottomissione al legato; ma da quel dì in poi,
schieratosi lealmente sotto le sue bandiere, combattè per
lui, e seppe conciliarsene la stima in modo da ottenere un
segnalata tratto di fiducia, qual si fu quello di essere
eletto suo vicario in Orvieto nel 1361. Ignoro per quanto
tempo durasse in quell'officio, e mi è noto soltanto che
nel 1367 il cardinale Anglico De Grimoard,
succeduto nella legazione all'Albornoz, lo delegò
alla potesterìa del Borgo Sansepolcro che ritenne per
varii anni. Manco dipoi notizie sul conto suo fino al
1375, nel quale anno fu chiamato dai fiorentini alla
potesterìa del loro Comune per sei mesi cominciati il dì
10 di ottobre. Fu ben ponderata la scelta fatta di lui da
quei bene avveduti repubblicani; i quali essendo in guerra
con papa Gregorio XI, avevano bisogno di mettere in gioco
il malcontento di un barone spossessato dalla Chiesa per
aprirsi la via a trovare degli alleati nelli stati stessi
di lei. Infatti i Cima, fidati in quelle aderenze
che non mancano giammai a chi ha tenuto per alcun tempo
alto stato, assistiti dalle milizie di Bartolomeo Smeducci
vicario per la Chiesa in Sanseverino, tentarono e
riuscirono a levare tumulto in Cingoli ribellandolo alla
Chiesa e facendosi acclamare signori. Mentre questo
facevasi, Masio stava in Firenze a vigilare al buon
andamento delle cose; ma il non avere impugnata la spada
non valse a salvarlo dalle scomuniche fulminate a nome del
papa. Assicurato poi il dominio per la pace del 1378,
godè Masio maggior considerazione dei suoi fratelli, non
tanto per essere il primogenito quanto ancora per essere
di più vasta mente degli altri. Morì prima del
1386.
Si sposò
nel 1360 con Antonia di Giacomo di Taddeo Pepoli
signore di Bologna. |
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57
- Benuttino |
Dopo la
sottomissione al legato fatta da Bartolo suo zio a nome
della famiglia, ei gli portò il soccorso della sua spada
e contribuì non poco ad assicurargli le vittorie che
riportarono alla sudditanza della Chiesa cotanta parte di
stato. Sperava, e forse ancora gli era stato promesso, che
premio della lealtà sarebbe stato il ritorno in Cingoli,
se non cogli attributi della sovranità, almeno colla
usata supremazia; ma quando vidde delusa la sua
aspettativa, si accese di mal talento verso il governo
degli ecclesiastici. Per conseguenza non fu difficile alla
repubblica fiorentina di trarlo nei suoi interessi durante
la guerra contro Gregorio XI; e pattuì con essa alleanza
e soccorsi quando i Cima avessero conseguito per
opera di lei di essere rimessi in seggio. Infatti nel
dicembre del 1375, Benuttino insieme coi fratelli,
scortato da numerose schiere di armati alle quali imperava
Bartolommeo Smeducci allora soldato dei fiorentini,
irruppero improvvisi in Cingoli, corsero la terra e se ne
federo acclamare signori. Non fu senza resistenza per
parte delle soldatesche del papa; ma furono vinte da
Benuttino, volte in fuga ed inseguite fino ad Argiano; e
liberatesi di esse, presto ebbero i Cima ridotto in
sudditanza l'antico territorio di Cingoli, aggiungendovi
Montefilottrano e altri luoghi. Il vescovo di Osimo, per
ordine di Gregorio XI, fulminò scomuniche, pubblicò
condanne a pene corporali, dipoi sottopose Cingoli
all'interdetto: ma i Cima se ne risero e, fedeli ai
patti giurati colla repubblica di Firenze, si apprestarono
a combattere contro il pontefice. Sembra peraltro che le
armi ecclesiastiche prevalessero e che nel 1377 Cingoli
tornasse a forza in devozione della Chiesa, essendo certo
che nel luglio di quell'anno vi dettava leggi un legato;
ma fattasi nel 1378 la pace, dopo che Urbano VI fu eletto
pontefice, i Cima siccome alleati dei fiorentini vi
furono compresi; anzi colsero il frutto sperato dalla loro
ribellione, perchè il pontefice avendo bisogno di farsi
degli alleati per resistere all'antipapa Clemente VII, non
solo diè ad essi il perdono, ma li nominò inoltre suoi
vicari in Cingoli e nel territorio. Rassodati così in
signoria, i Cima si mostrarono avidi di aumentare
il loro piccolo stato; e nel 1380 guerreggiavano
aspramente con il Comune di Osimo per la negata
restituzione di Montefilottrano e il tentato acquisto di
Montecchio; ma leggendo nelle storie che si posero sotto
la protezione del Comune di Ancona, il quale perciò si
fece mediatore di pace, mi fa ritenere che la lotta non
volgesse gran fatto ad essi favorevole. Fu conseguenza di
quella sottomissione il soccorso di 150 fanti che i Cima
inviarono agli anconitani nel 1382, quando si trovarono
alle prese con Lodovico d'Anjou spinto
dall'antipapa ai danni di quei luoghi che riconoscevano
l'autorità del suo avversario. Ogni legame verso Ancona
cessò nel 1393, quando Bonifazio IX, con bolla del dì 14
maggio, nominò Benuttino, restato solo superstite tra i
figli di Tanarello, vicario della Chiesa in Cingoli e suo
distretto, per dodici anni e per l'annuo censo di 150
fiorini d'oro di camera; comprendendo nella investitura
ancora il figlio ed il nipote di Benuttino. E' detto in
quel documento che il Cima già da varii anni
teneva il governo, e che lo reggeva in modo degno di molta
lode; e probabilmente lo teneva dal 1386 per la morte di
Masio ch'era di tutti primogenito. Agli occhi nostri è un
usurpazione quest'atto di Benuttino perchè vivevano
ancora i figli di Masio, i quali furono dimenticati mentre
potevano accampare diritti migliori dei suoi essendo nati
appunto dal primogenito; ma deve riflettersi che di faccia
alla Chiesa concedente non esisteva verun diritto
agnatizio nei Cima e che solo derivava dalle sue
concessioni; concessioni che alle debite scadenze poteva
il pontefice restringere o allargare a suo talento e farle
a chi più gli paresse a proposito per gl'interessi della
sedia pontificale. Benuttino, appena assodato in signoria,
strinse alleanza con diversi Comuni e nobili della Marca
per resistere alle bande dei venturieri Brettoni; le quali
vinte da Biordo Michelotti in scontri parziali,
furono poi da lui stesso esterminate, quando occupato a
tradimento Castel Sant'Angiolo, tentarono ancora
d'impadronirsi di Cingoli. Nel 1395 dotò il suo piccolo
stato di nuovi statuti, i quali furono confermati da
Matteo Dell'Amatrice giudice della Curia di Andrea Tomacelli
marchese della Marca. Il signore di Cingoli fu molto in
grazie a Bonifazio IX, il quale lo distinse col dono della
rosa d'oro, e lo volle senatore di Roma nel 1400. Non
compì peraltro l'officio, essendo morto il dì 14 ottobre
dell'anno istesso. Il popolo romano l'onorò di magnifici
funerali, e fece apporre pomposo elogio sulla pietra che
copriva le sue ossa nella chiesa di Araceli. L'Avicenna
storico di Cingoli lo accusa di essersi arricchito
soverchiamente colla prepotenza e colla frode, e narra
come fosse solito di fare assolvere le persone inquisite
di qualche delitto a condizione che gli cedessero a
vilissimo prezzo le loro terre: accusa gravissima che non
ha l'appoggio di verun documento, e tanto meno credibile
per averla mescolata l'autore con tante altre imprudenti
menzogne a danno dei Cima.
Si sposò
con Ambrosina di Giovanni conte Dell'Anguillara. |
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58
- Cimarello |
Nulla
saprei dire di lui che comune non sia ai suoi fratelli
tranne il vicariato di Terni e la potesterìa di Spoleto
che tenne a nome della Chiesa nel 1361 e nel 1362. Lo
credo morto intorno al 1363 non trovandolo più rammentato
dopo quell'epoca.
Si sposò
nel 1352 con Dea di Nallo Guelfoni da Gubbio |
56
- Masio |
60
- Elisabetta |
61
- Antonio |
62
- Cima |
63
- Giacomo |
64
- Ugantonio |
65
- Samaritana |
60
- Elisabetta |
Rimasta
unica superstite della casa dei Cima, lasciata
erede dei suoi beni e dei suoi diritti da Francesca sua
cugina, morì decrepita dopo il 1466, lasciando ai figli i
privilegi derivati dalla sua casa e i pochi averi che per
la sua dote aveva potuto salvare dalle confische e dalle
usurpazioni di particolari persone. I suoi discendenti
presero il cognome dei Cima, ignoro se per volontà
di lei o di Masio suo nipote domiciliato in Osimo,
ossivero per affettare nobiltà superiore agli altri nella
città in cui presero stanza. Conservarono peraltro
l'avito stemma delli Smeducci al quale unirono due
cime di palma; e appunto per l'arme distinguevansi da una
famiglia omonimo col dirsi Cima della Scala.
Sposata
nel 1399 con Biagio di messer Bartolommeo Smeducci
vicario della Chiesa in Sanseverino |
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61
- Antonio |
Ignoro il
motivo per cui soffrì lunga prigionia, e conosco il fatto
soltanto per averne fatta menzione la madre nel
testamento. nel 1386 egli e Cima suo fratello, il dì 17
di giugno, venderono alcune terre nella contrada di s.
Anastasia per dare la dote a Samaritana loro sorella: ed
altri atti vi sono che gli risguardano sino al 1389. Ma
dopo quell'anno non conosco altra carta che li rammenti,
avendo probabilmente dovuto abbandonare patria dopochè
Benuttino loro zio volle concentrato nella sola sua linea
tutto il dominio. Forse tentarono di ribellarsi all'atto
ingiusto e ad essi dannoso; forse il signore di Cingoli li
credè capaci di farlo: ed è ben noto che agli occhi di
un tiranno il semplice sospetto è una prova. |
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62
- Cima |
Morto
prima del 1389 |
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63
- Giacomo |
Non si
hanno particolari notizie di lui: ma non sono lontano dal
ritenere che sia quel Giacomo Cima di cui si hanno memorie
in Osimo nei primi anni del secolo XV, passato forse colà
per le sventure della sua famiglia |
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65
- Samaritana |
Fu
maritata nel 1386, ma ignoro il nome di suo marito |
63
- Giacomo |
66
- Masio |
67
- Bartolommeo |
66
- Masio |
Non sono
certo che sia questo il suo luogo, e conviene che dichiari
esservi molta oscurità intorno a questa linea. Erasi
fatto cittadino di Osimo, e lo vediamo incaricato da quel
Comune di trattare alcuni affari con Staffolo nel 1462, e
dipoi gonfaloniere nel 1480. Probabilmente morì senza
prole, lasciando eredi i figli di Elisabetta sua zia, che
perciò presero il cognome dei Cima. |
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67
- Bartolommeo |
Era dei
rettori del Comune di Osimo nel 1475 |
57
- Benuttino |
68
- Giovanni |
69
- Anfelisia |
68
- Giovanni |
Successe
al padre nel dominio senza contrasti, e nel 1405 ebbe
conferma del vicariato. Militò per Innocenzio VII nella
guerra contro Ladislao re di Napoli, laonde fu compreso
nel trattato di pace del 1406. Andato nell'anno istesso
con nobile comitiva a Viterbo per visitare il pontefice,
volle questi che lo accompagnasse a Roma, e che nel
solenne ingresso gli portasse davanti il gonfalone della
Chiesa; di più, in benemerenza dei servigi resi alla
santa Sede, gli donò la rosa d'oro. Gregorio XII lo
elesse senatore di Roma nel 1407, ed entrò in officio il
dì 3 di giugno; ma dopo due mesi, essendo stato costretto
il papa a fuggirsene, desiderò che Giovanni lo scortasse
fino a Viterbo: ed ei lo compiacque, rinunziata prima la
sublime dignità nelle mani di Pietro Annibaldeschi.
Mentr'era in Viterbo ebbe notizia della morte del figlio,
per la quale dovè tornarsene a Cingoli. Trovò la Marca
Anconitana tutta in sconvolgimento perchè l'antico
rettore, Lodovico Migliorati, pretendeva di
mantenersi a forza in officio e di non cedere il potere al
vescovo di Montefeltro destinatogli a successore,
istigandolo a ciò Ladislao re di Napoli: e Giovanni
postosi nell'animo di tornarvi la pace, si fece mediatore
tra Lodovico e Braccio Fortebracci che sosteneva
vittoriosamente le parti della Chiesa contro di lui, e
riuscì nell'intento. Voltosi allora il Fortebracci
ai danni degli Smeducci, che aveano seguite le
parti dell'avversario e dato ricetto in Apiro ad alcune
masnade di venturieri congedati da lui, andò ad assalire
quel castello, e lo prese; poi lo cedè al Cima per
5.000 fiorini d'oro, avendolo fors'egli segretamente
incitato alla preda. Ma gliene incolse danno, perchè
sospettando che Braccio potesse tentare qualche impresa
contro di lui, assoldò a sua volta li stessi mercenari
che il Fortebracci avea vinti, e quando
combattevano per il Migliorati e quando dipoi per
li Smeducci; e li mandò a presidiare il castello
di Apiro. Irritato Braccio per tali atti, venuta la
primavera del 1408, entrò con grosso numero di soldati
nel territorio di Cingoli e si spinse fin presso le mura
della città: ma quivi se gli fece incontro Giovanni Cima,
il quale venne con lui a sanguinosa battaglia che durò
intiero giorno, e con sua piena vittoria, essendogli
riuscito di respingere il nemico fino a Roccacontrada. Ma
durante questa, li Smeducci, aiutati dai Malatesta,
riuscirono a sorprendere Apiro, e a tornarselo a
devozione; la qual cosa decise il Cima a
riconciliarsi col Fortebracci. Fu tra i patti che
dovessero uniti andare al riacquisto di quella rocca; ed
infatti ci si portarono forti di numeroso stuolo di
agguerriti guerrieri il dì 12 ottobre 1408, e la
espugnarono nonostante che fosse valorosamente difesa. Vi
ristabilì Giovanni il suo dominio, ma non per questo
quetarono le cose: e per quattro anni durò tra lui e li Smeducci
una di quelle piccole guerre, così fatali e dannose
perchè piene di rappresaglie, di stragi e di prede
continue. Nel 1412, essendosi forse determinate le parti a
rimettersi al giudizio del rettore della Marca, che
altrimenti non saprei dirne il perchè, e forse ancora per
intimazione fattane da Gregorio XII, Apiro fu dal Cima
depositato nelle mani di Carlo Malatesta; il quale
finì col restituirlo ad Antonio Smeducci, per
essere stata, assai probabilmente, a lui favorevole la
sentenza. Nè sarebbe fuori di proposito il ritenere che
Giovanni fosse indotto a più miti propositi dalla
ribellione dei suoi vassalli di Staffolo, ribellione che
domò col ferro e col fuoco senza pietà. Nello scisma dei
tre pontefici egli si dichiarò a favore di Giovanni XXIII,
dopo che per opera di Gregorio XII ebbe perduto il dominio
di Apiro; e da quel papa ebbe conferma di tutti i
privilegi concessigli dagli antecedenti pontefici, con
bolla data in Firenze il dì 25 aprile 1413. Morì nel
giugno del 1422, incerto se di morte naturale o di veleno
propinatogli da una crudele consorte: nè mancano
scrittori che narrino come dessa, fattolo assopire con un
narcotico, lo facesse ancor vivo chiudere nel sepolcro.
Scrissero di lui i suoi sudditi, quando più non potevano
temerne ed avevano anzi interesse a fare aggiudicare al
Comune i suoi beni, che esercitò potestà tirannica,
facendo porre a morte per i più lievi motivi; che le
carceri ed i sotterranei dei suoi castelli teneva ripieni
d'infelici che vi faceva gettare a capriccio, o per aver
pretesto di confiscare i loro beni; che obbligava le genti
a lasciarlo erede; che infine occupò prepotentemente
molte possessioni e cose mobili del Comune: fatti questi
sui quali può esservi molta esagerazione, ma che in
qualche parte erano veri, avendosi prove, per documento
del 1425, che avea costretto una tale Paoluccia vedova di
Niccolò Tosti a lasciarlo suo erede, mentre per
l'ultima volontà del marito avrebbe dovuto legare al
monastero di s.a Caterina di Cingoli quei beni
che per quell'atto si volevano rivendicare.
Si sposò
una prima volta la figlia di un Antonio Simonetti da Jesi.
Un
secondo matrimonio lo contrasse il 22 gennaio del 1404 con
Rengarda di Niccolò Filippo Brancaleoni signore
di Casteldurante. Queste nozze furono solennizzate in
Cingoli con grandi feste, alle quali presero parte i
rappresentanti dei Comuni, e quasi tutti i baroni della
provincia. Donna senza pietà e di sfrenata ambizione, si
rese rea di atroci delitti, se è vero che affrettò la
morte al marito ed ai figli. Appena restata vedova e
reggente dello stato, fu richiesta in moglie da Antonio di
Onofrio Smeducci vicario di Sanseverino per uno dei
figli suoi, ed ella lo tenne a bada finacchè non si
sentì forte abbastanza per potergli resistere se si fosse
dichiarato nemico; ma assicuratasi dell'assistenza di
Braccio Fortebracci, gli rispose con un rifiuto, e
si unì invece ad Anselmo di Ranieri Montemellini
da Perugia cugino di Braccio, mentre ad altri due della
stessa agnazione promesse le figlie sue. Morti i figli nel
1423, usurpò col marito l'assoluto dominio, valendosi
all'uopo delle milizie braccesche che avea segretamente
introdotte nella città, guidate da Giacomo degli Arcipreti:
temendo essa non tanto dei cingolani quanto di Biagio Smeducci
marito di Elisabetta Cima, il quale assistito dal
vicario di Sanseverino poteva accampare dei diritti se non
alla signoria, alla tutela almeno della figlia primogenita
del defunto Giovanni. Quello che essa temeva si avverò
non appena Braccio ebbe richiamate le truppe, che gli
erano necessarie per altre imprese, avvegnachè i
cingolani si sollevarono, e poi assediarono l'odiata donna
che si era rifuggita nella fortezza. Vi resistè per alcun
tempo, sperando che sarebbe stata soccorsa, ma venuto il
settembre del 1424, vedendo inutile ogni ulteriore
aspettativa per la morte di Braccio, e che ogni giorno
andavano peggiorando le sue condizioni, chiese alfine di
capitolare, incaricando delle trattative a suo nome un tal
da Perugia, quello che fu in Cingoli l'autore della
famiglia Clavoni. Potè ottenere soltanto sicurtà
della persona per sè e per tutta la sua famiglia e la
facoltà di potere asportare tutto il mobile, con quante
vettovaglie potessero bastarle per condursi a Perugia. Ma
invece di andare al suo destino, occupò a tradimento il
forte luogo di Castreccione, ch'era patrimonio dei Cima,
dal quale fu non molto dopo cacciata con un fortunato
strattagemma che accennano ma non spiegano li storici. |
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69
- Anfelisia |
Badessa
nel monastero di s.a Caterina di Cingoli nel
1395. Ottenne dal pontefice che al suo fosse unito il
convento di s. Giacomo di Col di Luce. |
68
- Giovanni |
70
- Benuttino |
71
- Lodovico |
72
- Anfelisia |
73
- Giovanbattista |
74
- Ambrosina |
75
- Francesca |
70,
71 - Benuttino, Lodovico |
Morti
nell'inverno del 1423, non senza sospetto che li avesse
fatti avvelenare colui che fu secondo marito alla madre
loro
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72
- Anfelisia |
Sposata con
Francesco di Ranieri Montemellini da Perugia
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73
- Giovanbattista |
Nato nel 1392.
Premorto al padre il dì 11 agosto 1407, probabilmente
fatto morire dalla matrigna
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74
- Ambrosina |
Sposata con
Cherubino di Ranieri di Montemellini da Perugia
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75
- Francesca |
Quando fu
cacciata la sua matrigna da Cingoli tutti i suoi beni
furono usurpati da Pietro Emili-Colonna il quale
essendo rettore della Marca per Martino V ne profittò per
ritenersi la signoria di Cingoli, facendo, a nome della s.a
Sede, alcune capitolazioni cogli abitanti, sottoscritte il
dì 10 settembre 1424. Fu tra quelli l'obbligo assunto
dalla Chiesa di non dare più giammai la città in
vicariato; di non rimettere in Cingoli i fuoriusciti e
specialmente i superstiti dei Cima; con facoltà se
si accostassero alle mura di punirli fino alla morte.
Questi superstiti di casa Cima essere non potevano
che la misera figlia di Giovanni di Benuttino, Barnabò di
Uguccione, li Smeducci figli di Elisabetta di Masio,
e qualcuno dei fratelli di lei. Durò il Colonna
nella sua usurpazione fino al 1431, nel quale anno fu
revocato dal suo governo; ed allora Francesca messe in
campo fondate pretensioni sul patrimonio dei suoi
maggiori. Non così peraltro la pensava il Comune di
Cingoli; il quale mosse prima ricorso davanti al vescovo
di Recanati presidente per la Chiesa nella Marca di
Ancona; e profittando dipoi della occupazione che della
città aveva fatta Francesco Sforza, sottraendola
alla potestà della Chiesa, a lui ricorse con umile
petizione in cui tutti si enumerarono i delitti che
faceano meritevoli i Cima della confisca, chiedendo
perciò la devoluzione a sè di tutto il loro retaggio: e
fu ben naturale che il novello signore, per rendersi
benevoli gli abitanti, compiacesse alla loro domanda con
suo atto del dì 12 settembre 1434; che confermò, quando
fu dal pontefice eletto marchese della Marca, con diploma
dato in Fabriano il dì 3 di febbraio 1436. Non quetava
pertanto Francesca per tali atti, e minacciando liti che
potevano volgere non a buon fine per il Comune, fu
giudicato espediente di troncarle con un istrumento di
transazione che fu stipulato il dì 8 settembre 1436; per
il quale rinunziando la Cima a tutti i diritti che
le competevano e facendone cessione al Comune, ottenne da
questo la restituzione di alcuni tra i beni aviti, e la
esenzione su questi,e su quelli che avrebbe in seguito
posseduti, da ogni peso reale e personale non tanto per
lei, quanto ancora per i suoi eredi e successori. Altra
convenzione stipulò poi il dì 9 ottobre 1439, per la
quale ottenne nuovi terreni, previa cessione di ogni altro
suo diritto, salvi quelli che le competevano su Staffolo,
in Sassoferrato ed in alcuni altri castelli; ed ottenne
del pari la conferma della già concessa esenzione. Da
questo istrumento si scorge che nel disfacimento dei Cima
non pochi eransi ingranditi sulle loro rovine, e che dei
beni aveano avuta la parte loro anche i conventi di frati
e di monache, non meno che diverse famiglia, tra le quali,
certo non ultima, fu quella di Francesco Silvestri.
Queste sue rinunzie e la donazione ancora di Francesco Sforza
furono poi confermate d'ordine di papa Eugenio IV, con
atto del dì 11 gennaio 1444, dal cardinale Lodovico Scarampi
camarlingo della s.a Chiesa, insieme con altri
capitoli concordati con il Comune di Cingoli; e più tardi
da Callisto III, con bolla del dì 13 giugno 1455.
D'allora in poi l'accordo tra Francesca e il Comune fu
inalterato, a segno che sapendola i cingolani nel 1460
minacciata di assedio in so quale sua rocca, scrissero al
legato della Marca raccomandandogli caldamente di
provvedere alla sicurezza di lei. Testò nel palazzo di
Bissina il dì 18 ottobre 1466, chiamando erede la
cappella del Crocefisso che aveva eretta nella chiesa di
s. Francesco di Cingoli: ma il dì 30 dicembre
dell'anno medesimo revocò il testamento e, lasciate col
nuovo diverse terre per il mantenimento della cappella,
scelse a suoi eredi Elisabetta sua cugina con Masio e
Bartolommeo di lei figli. Morì in Cingoli non molto tempo
dopo, e fu sepolta nella sua cappella di s. Francesco.
Si sposò nel 1428 con il
Conte Luigi di Francesco Degli Atti signore di
Sassoferrato. |
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