All'interno
dell'archeologia antropologica statunitense si sviluppò negli
anni Sessanta dello scorso secolo un movimento culturale che
caratterizzò l'archeologia, soprattutto dell'ambiente
anglosassone, fino agli inizi degli anni Ottanta. Il principale
esponente di questa corrente, denominata New Archaeology o anche archeologia
processuale, fu Lewis Binford che in una serie di articoli, e in
seguito nel volume intitolato New Perspectives in Archaeology
(1968), prese posizione contro lo storicismo culturale di matrice
idealista che grazie a Boas aveva dominato l'antropologia fino a
quel momento. Binford e i suoi colleghi si ribellarono al
principio secondo il quale ciascun fenomeno culturale era unico
ed irripetibile negando quindi ogni valore ai procedimenti
comparativi fra contesti etnici e storici differenti.
I
New Archaeologists, partendo
dal presupposto che il passato è ricostruibile in misura molto più
ampia di quanto si ritenesse fino ad allora, cercarono di spiegarlo,
e non solo semplicemente di descriverlo, attraverso valide generalizzazioni.
Queste infatti consentono l'identificazione di quelle tendenze
generali che si rilevano nei differenti contesti storici.
Nel far ciò essi cercarono di abbandonare il concetto di
"influenza" di una cultura su un'altra tentando di
analizzare ogni cultura come un "sistema" che poteva a
sua volta essere suddiviso in "sottosistemi".
Le
conclusioni alle quali giungeva il ricercatore non dovevano
basarsi sulla personale autorevolezza dello studioso che elaborava
l'interpretazione ma su argomentazioni logiche; le conclusioni,
per essere considerate valide, dovevano quindi essere suscettibili di
verifica. Lo scopo era pertanto quello di avvicinare l'archeologia
alle cosiddette scienze esatte con la
pretesa di spiegare meccanicisticamente il funzionamento e lo
sviluppo delle società umane con un procedimento di tipo
ipotetico-deduttivo, nel quale ipotesi e modelli formulati in base
alle leggi generali venivano verificati per mezzo dell’analisi
scientifica (cioè quantitativa e statistica) dei dati.
«Si
tratta dell’applicazione di un metodo analogo a quello delle
scienze sperimentali, nel quale la visione complessiva entro la
quale il singolo problema si colloca viene esplicitata fin dall’inizio,
mentre il procedimento consiste nella costruzione e nella verifica
di modelli specifici. La visione complessiva, condivisa
sostanzialmente da tutti gli archeologi processuali (e anche dai
rappresentanti del cosiddetto post-processualismo), è di tipo
antropologico: la cultura non è un sistema chiuso, ma è comunque
un insieme di elementi fra loro collegati, che include le
comunità umane nelle loro relazioni ambientali, sociali e
politiche. Sul piano archeologico, l’aspetto essenziale di
questi approcci è la contestualità: qualunque sia il livello
dell’analisi (dalle relazioni spaziali all’interno di una
struttura, alla strutturazione funzionale e gerarchica di un
abitato, all’organizzazione di un territorio regionale o più
ampio), il significato dei singoli elementi materiali può essere
identificato solo sulla base della rete di relazioni che collegano
ognuno di essi agli altri elementi dello stesso contesto. In
questo quadro di relazioni comunque complesse, la costruzione e la
verifica di modelli è un procedimento obbligato: il modello non
è una semplice ipotesi, ma è una costruzione articolata e
dinamica, che deve essere capace di rispondere alla ricchezza di
elementi che fanno parte integrante del contesto» (1).
L'esigenza
di sostenere con dimostrazioni scientifiche il dato archeologico determinò una grande rivoluzione nel campo delle
tecniche applicate alla ricerca. Gli
esponenti della New Archaeology spostarono la loro attenzione
dall'approccio storico a quello proprio delle scienze, utilizzando
tecniche quantitative più raffinate, attingendo idee da altre
discipline (in particolare della geografia) e a vocabolari (tratti
dalla teoria dei sistemi, della cibernetica, ecc.) fino ad allora
estranei al mondo archeologico. Vennero quindi introdotti nuovi
approcci in settori come l'analisi
dei materiali, dei paesaggi, dell'ambiente e soprattutto
nell'elaborazione quantitativa dei dati (campionatura, test di
significatività e procedure di inferenza). Altri
esempi riguardano gli studi sui processi di formazione e
deposizione della stratificazione, le analisi della distribuzione
di siti e manufatti, le prospezioni geofisiche e geochimiche, le
analisi di laboratorio sui materiali, lo studio degli ecofatti,
ecc.
Alla
base della New Archaeology vi era anche il principio secondo il
quale tutte le comunità umane reagiscono grosso modo in maniera
analoga a stimoli e situazioni simili. La cultura di una
collettività è determinata dall'ambiente che occupa e dalla
tecnologia a sua disposizione (dette anche "variabili
tecnoambientali"). Quest'impostazione materialista sfociò in
alcuni casi in un completo determinismo. Alcuni New Archaeologists
sostenevano infatti che una volta misurate correttamente tutte le
variabili in gioco era addirittura possibile predire con
precisione i caratteri di una popolazione ancora prima di
conoscerli.
«La
cultura, infatti, intesa in senso antropologico, viene
interpretata in chiave esclusivamente funzionale e definita come mezzo extrasomatico di adattamento"
(Binford). L'intero
sviluppo umano viene quindi visto sotto un'ottica evoluzionista
che si richiama al darwinismo sociale. In analogia con la
selezione naturale delle specie, si ritiene che i gruppi umani
siano in continua competizione fra di loro per le limitate risorse
disponibili e che il risultato sia il prevalere di quella cultura
che meglio si adatta a sopravvivere in quelle condizioni. Questo
meccanismo porterebbe a privilegiare le culture più avanzate a
danno di quelle più primitive. Seconda questa teoria, definita
neoevoluzionistica, sono riconoscibili alcuni stadi universali che
sono tipici nello sviluppo di tutte le comunità umane: da
società tribali, in cui non esiste alcuna stratificazione
sociale, si passerebbe a chiefdoms e a chiefdoms
complessi, caratterizzati da una progressiva maggiore
articolazione sociale che si tramanda di generazione in
generazione, fino ad arrivare allo Stato, contraddistinto
dall'esistenza di un potere centrale con burocrazia specializzata.
In
Italia la New Archaeology ha stentato
molto a prendere piede. La forte tradizione storicista del nostro paese, infatti, ha indotto
a un marcato scetticismo verso un'impostazione percepita come meccanicistica e
riduttiva e che in ultima analisi offriva una giustificazione al moderno colonialismo europeo.
Allo stesso tempo, la scarsissima consuetudine con le procedure scientifiche e
quantitative ha fino ad oggi impedito di recepire in pieno anche gli aspetti di innovazione
metodologica che sono ormai patrimonio dell'archeologia a livello mondiale.
In questo quadro, la
New Archaeology ha finito per assumere in ambito italiano un carattere d'impostazione
rivoluzionaria rispetto al mainstream locale; i suoi sostenitori italiani quindi, in notevole
contraddizione con il carattere originale di questa tendenza negli Stati Uniti, hanno
assunto una collocazione di radicalismo nel nostro schieramento archeologico
(rappresentato, per esempio, da Giovanni Leonardi e Armando De
Guio). Non aiutata dal linguaggio
iniziatico adottato spesso dai suoi teorici, la New Archaeology in Italia non ha in
definitiva avuto modo di svolgere il suo ruolo di ondata innovativa.
Va infine detto che la New
Archaeology, anche in ambito europeo e americano, è stata oggetto di profonde critiche e
revisioni, che hanno portato a moderare molto o addirittura a capovolgere molte delle
formulazioni originarie» (2).
Le
origini dell'agricoltura: una spiegazione processuale
Nel
1968 Lewis Binford pubblicò l'articolo Post-Pleistocene
Adaptations con il quale intendeva spiegare le origini
dell'agricoltura. La proposta di Binford si distingueva da quelle
proposte in precedenza per un elemento importante: la generalità.
Lo studioso infatti non intendeva spiegare le origini
dell'agricoltura solo nel Vicino Oriente ma in tutto il mondo,
ponendo la sua attenzione ai grandi eventi naturali dell'ultima
era glaciale basando la sua spiegazione sulla demografia.
«In un villaggio
stanziale non sono più operanti quei vincoli che, in un gruppo mobile, limitano rigorosamente il
numero di bambini che una madre può allevare; non esiste più la scomodità, ad
esempio, di dover trasportare i bambini piccoli da un luogo all'altro.
In questo modo Binford individuò il nocciolo della questione nel fatto che nel
Vicino Oriente alcune comunità (appartenenti alla cultura
Natufiana, intorno al
9000 a.C.) divennero sedentarie prima ancora di aver avviato la produzione del
cibo. Questa nuova condizione avrebbe provocato una forte pressione
demografica, visto il maggior numero di bambini che riuscivano a sopravvivere, e
avrebbe quindi portato a consumare sempre più i cibi vegetali disponibili
localmente, come i cereali selvatici che fino a quel momento erano stati considerati
marginali e di scarso valore. Dall'uso intensivo dei cereali e con
l'introduzione delle pratiche del loro trattamento si sarebbe sviluppato il ciclo regolare di
semina e raccolta, e in questo modo si sarebbe avviato il rapporto
pianta-uomo che avrebbe portato alla domesticazione.
Ma perché questi gruppi pre-agricoli
divennero sedentari? Binford riteneva che l'innalzamento del livello del mare
alla fine del Pleistocene (causato dallo scioglimento del ghiaccio polare)
avesse avuto due effetti fondamentali. In primo luogo, ridusse l'estensione delle
pianure costiere fino ad allora a disposizione dei cacciatori-raccoglitori. In
secondo luogo, i nuovi habitat creati dall'innalzamento del livello del mare
offrivano ai gruppi umani più possibilità di accedere alle specie migratorie, sia
ittiche (le specie «anadrome», cioè i pesci che come il salmone risalgono i
fiumi dal mare per deporre le uova) sia aviarie. Sfruttando queste ricche risorse
i gruppi di cacciatori-raccoglitori ebbero per la prima volta la possibilità di
condurre un'esistenza sedentaria. Non erano più costretti a spostarsi.
Questo riassunto assai conciso illustra
comunque le linee generali della spiegazione offerta da Binford, che, sotto
certi aspetti, è oggi ritenuta un po' troppo semplicistica. Ciò nondimeno, essa
conserva molti punti di forza, e anche se l'attenzione era concentrata sul
Vicino Oriente, gli stessi concetti si possono applicare ad altre parti del mondo.
Binford evitò di parlare di migrazione o di diffusione e analizzò il problema in
termini processuali» (3).
Archeologia
quantitativa
Alla
fine degli anni Cinquanta del secolo scorso Albert Spaulding, uno degli antesignani della
New Archaeology, propugnò l'introduzione dei
metodi statistici per la definizione delle tipologie dei
manufatti. Al fine di ottenere una procedura oggettiva e
controllabile, l'uso dei test di inferenza per l'individuazione dei
"tipi" venne considerato un metodo migliore e innovativo rispetto alla tradizionale classificazione.
Nasceva così l'archeologia quantitativa.
Grazie
allo sviluppo della New Archaeology l'archeologia quantitativa assunse un ruolo
fondamentale nel lavoro dell'archeologo che iniziò così ad
utilizzare degli strumenti, pertinenti ad altre discipline,
quali la campionatura, i metodi probabilistici, la classificazione
numerica, ecc.
Intorno
agli Ottanta del secolo scorso l'archeologia quantitativa venne ridimensionata;
si cominciò a capire che molti dei lavori compiuti
negli anni precedenti contenevano errori formali o producevano
risultati scontati, ridondanti e di difficile interpretazione.
Alcuni iniziarono a sostenere che l'archeologia quantitativa
dovesse sviluppare propri metodi anziché utilizzare
acriticamente mezzi e metodologie di altre discipline. George
Cowgill auspicò la nascita di una differente disciplina, nella quale
si dovevano combinare i nuovi aspetti metodologici con quelli
tradizionali, come ad esempio associando le procedure bayesiane ai
metodi quantitativi.
«Le
recenti formulazioni postmoderne vanno rapidamente
smantellando il mito di una conoscenza oggettiva del passato e di
un procedere imparziale dell'archeologo. L'impianto relativista
dell'archeologia postprocessuale lascia sempre meno spazio ai
metodi matematici e statistici, che sono visti come potenzialmente
riduttivi e meccanicistici. Nel complesso è in vista un
riequilibrio del ruolo dell'archeologia quantitativa: abbandonati
gli estremismi che la vedevano come unica via di raggiungimento
della verità, essa appare oggi come una delle molte opzioni
euristiche aperte al ricercatore. In questa nuova prospettiva i
metodi quantitativi possono arricchire e chiarire molti aspetti
della documentazione archeologica» (4).
(1)
A. M. Bietti Sestieri, L'archeologia processuale in Italia, o
l'impossibilità di essere normali, in N. Terrenato (a cura di),
Archeologia teorica, X Ciclo di lezioni sulla ricerca
applicata in Archeologia. Certosa di Pontignano (Siena), 9-14 agosto
1999, Edizioni All'Insegna del Giglio, Firenze 2000 (articolo
on-line)
(2)
N. Terrenato, New Archaeology,
in R. Francovich - D.
Manacorda (a cura di), Dizionario di archeologia, Laterza,
Bari 2000, p. 206
(3)
C. Renfrew - P. Bahn, Archeologia. Teorie. Metodi. Pratica,
Zanichelli, Bologna 1995, p. 421
(4)
N. Terrenato, Quantitativa,
archeologia,
in R. Francovich - D.
Manacorda (a cura di), Dizionario di archeologia, Laterza,
Bari 2000, p. 237
per
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Manacorda (a cura di), Dizionario di archeologia, Laterza,
Bari 2000, pp. 204-206
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Terrenato N., Quantitativa,
archeologia,
in R. Francovich - D.
Manacorda (a cura di), Dizionario di archeologia, Laterza,
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· Indici
di: Archeologia
e Calcolatori e Computer
Applications and Quantitative Methods in Archaeology
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