Antichi planetari

(Titolo originale: "La fabbrica delle stelle")

di Giangiacomo Gandolfi

l'Astronomia n. 240 (marzo 2003) pp. 28-32 (40)

 

Cosa è esattamente un planetario? Secondo l'autorevole definizione dell'Enciclopedia Britannica, con tale nome si indica "un congegno per riprodurre un cielo artificiale” ma nel corso dei secoli questo obiettivo è stato raggiunto con una molteplicità di tecniche sorprendente. Il planetario, come oggi lo conosciamo è una macchina elettrica e meccanica che proietta su una cupola emisferica sole, luna, stelle e pianeti, simulando con grande efficacia i moti apparenti. Non sempre la riproduzione del cielo stellato e dei fenomeni astronomici è stata ottenuta con tecniche “proiettive”, che anzi sono una realizzazione dei primi anni del XX secolo; vedremo come dalle prime sfere armillari, globi celesti e soffitti o cupole dipinte si sia giunti all'ideazione di congegni sempre più sofisticati e anche esteticamente pregevoli come le grandi "orreries" e i planetari Zeiss, Spitz e Goto. "Planetario" non è solo il nome dello strumento utilizzato per ricreare le meraviglie e le complessità del cielo notturno, ma anche la denominazione dell'istituto e dell'edificio (per lo più emisferico) che lo ospitano. Questo centro di cultura astronomica ha come principale obiettivo quello di diffondere con un appropriato programma educativo la conoscenza del cielo e dell'universo tra adulti e bambini. Stiamo parlando, dunque, di uno strumento didattico dal forte impatto emotivo e spettacolare, sebbene alcuni dei suoi lontani antenati abbiano avuto un’utilizzazione più specificatamente scientifica o addirittura un significato religioso.

 

ANTICHE RIPRODUZIONI DELLA VOLTA CELESTE

 

Iconografia astrale

Le prime rappresentazioni iconografiche di fenomeni astronomici risalgono alla preistoria (basti qui ricordare alcune ossa incise, risalenti al Paleolitico Superiore, con sequenze di incisioni che sembrano raffigurare l’evoluzione delle fasi lunari), ma prima di trovare una veduta d'insieme della volta celeste di cui sia rimasta testimonianza non frammentaria, dobbiamo aspettare il I sec. d.C. E’ il caso di alcuni soffitti egiziani di epoca tolemaica tra cui il celebre Planisfero di Denderah del Tempio di Hathor, di cui esiste una versione di forma circolare al Louvre e una rettangolare ancora nel pronao dell'edificio. Tipico prodotto del sincretismo ellenistico, questa riproduzione piana del cielo stellato alterna costellazioni greche ad asterismi tipicamente egiziani. Altri soffitti "celesti" antichi ricordati in letteratura ma non sopravvissuti fino ai nostri giorni sono quelli del Tempio di Tyche a Delo (II sec. a.C.) e delle Terme di Costantino a Costantinopoli, nonché alcuni esempi di volte affrescate a Roma, di cui si parlerà estesamente più avanti.

 

Sfere celesti

Tra gli strumenti astronomici dell’antichità, la sfera celeste, inventata intorno al VI sec. a.C. forse da Anassimandro o Talete, era uno dei più frequentemente utilizzati. Ne esistevano fin dall’inizio versioni “piene”, dette globi celesti, e rappresentazioni ad armatura metallica, dette sfere armillari (dal latino armilla, “braccialetto, anello”). In ambedue erano riportati i principali cerchi celesti equatore, tropici ed eclittica, ma solamente i globi erano ornati con le figure zoomorfe o antropomorfe delle costellazioni, dipinte sulla superficie. Il celebre astronomo greco Eudosso, verso il 375 a.C., fissò le immagini già esistenti e vi aggiunse i paralleli, i coluri e i dodici segni zodiacali. I globi potevano ruotare sul loro asse riproducendo il moto di rotazione diurna e permettevano spesso di misurare l’altezza di stelle e pianeti sull’orizzonte o di calcolare la posizione del sole e della luna tra le costellazioni dello zodiaco. Le sfere celesti più citate del modo classico sono quella di Lucullo, proveniente da Sinope e chiamata Sfera di Billaros, e quella di Archimede, riportata a Roma dal console Marcello al suo ritorno da Siracusa nel 212 a.C. e deposta nel Tempio della Virtù presso Porta Capena. Secondo il matematico Pappo di Alessandria, il grande scienziato siracusano fu anche l’autore di un saggio ormai perduto sulla costruzione di questi globi, la "Sferopea".

Non si è conservato alcun esemplare di antica sfera astronomica precedente al periodo imperiale, sebbene ne esistesse ancora una nell'XI sec. d.C. Possiamo comunque farcene un'idea grazie alla sfera di marmo dell’Atlante Farnese custodito al Museo Nazionale di Napoli e destinato probabilmente a decorare la biblioteca di Villa Adriana. Il globo, di 2 metri di circonferenza, risale a un modello della seconda metà del I sec a.C. ed è ricoperto da 40 costellazioni eseguite a rilievo, con la maggior parte dei personaggi vista di dorso. I diversi paralleli, i coluri e la fascia intorno all'eclittica risultano fortemente aggettanti. Un'altra preziosa sfera romana, in bronzo, è custodita al Museo di Mainz.

 

Primi planetari meccanici

A quanto sembra, gli specialisti della Sferopea avevano creato degli strumenti ben più sofisticati delle sfere: i planetari meccanici, che riproducevano, oltre al movimento delle stelle, anche quello del sole, della luna e dei cinque pianeti conosciuti. Tra questi congegni piuttosto misteriosi e confusamente descritti ricordiamo l’orologio anaforico di Vitruvio (rimangono frammenti di un esemplare il cosiddetto Disco di Salisburgo), precursore dell'Astrario del XV sec. e in grado di mostrare il cammino quotidiano del sole e la levata e il tramonto delle varie stelle in rapporto allo zodiaco. Tra i planetari meccanici più famosi segnaliamo quello di Archimede (anch’esso bottino di guerra del console Marcello), i dispositivi idraulici di Ctesibio di Alessandria (III sec. a.C.) e il congegno di Posidonio costruito verso l’87 a.C. A proposito della macchina di Archimede, alcuni parlano di un meccanismo bronzeo, Claudiano di una sfera di vetro. In generale molti scrittori dell’antichità vedevano questo oggetto come la prova che il cosmo doveva essere opera di un divino creatore: dal momento che il planetario del grande siracusano aveva avuto bisogno di un creatore, allora l’universo stesso aveva bisogno di un artefice. Cicerone rovesciò l'argomento per mostrare che, come il cosmo aveva avuto un divino creatore, così Archimede doveva essere stato divino per poterne riprodurre i movimenti. Quanto al congegno di Posidonio, visto e forse acquistato dallo stesso Cicerone a Rodi, doveva essere diffuso in tutta l'area del Mediterraneo. Con tutta probabilità la cosiddetta Macchina di Antikitera, un meccanismo di bronzo fortemente corroso e composto da una trentina di ruote dentate scoperto all'inizio del secolo a bordo di una nave greca affondata intorno al 75 a.C., non è che un esemplare di questo planetario. La macchina, in grado di mostrare la posizione dei corpi celesti su una serie di quadranti, rappresenta la prima evidenza fisica di un meccanismo metallico avanzato.

 

Architettura e cieli simbolici 

Ancora una volta, per trovare in età classica realizzazioni architettoniche che in qualche modo prefigurino i moderni planetari, dobbiamo rivolgerci a edifici romani. Nelle antiche tombe egizie il cielo è rappresentato su superfici piane e il tholos ellenico, circolare, ha purtuttavia un tetto a cono che rende difficoltosa una lettura del complesso architettonico in chiave cosmologica. Dagli Etruschi, invece, i Romani apprendono l'arte della volta e cominciano a costruire grandi cupole per rappresentare cieli più o meno simbolici. L'esempio più celebre e quello del Pantheon, un vero emisfero tanto alto quanto largo e sormontato da una cupola con apertura centrale di circa trenta piedi, l'oculus, che mette in comunicazione diretta con il firmamento. Iniziato nel 27 a.C. da Agrippa e portato a compimento con profondi rimaneggiamenti per ordine di Adriano dal 118 al 125 d.C., il Pantheon suggerisce con tutta evidenza l'idea del movimento circolare del cielo. Le nicchie lo dividono in sedici zone, come avviene nel cielo etrusco; i cinque ordini di cassettoni sono separati da ventotto nervature, ossia sette pianeti moltiplicati per quattro punti cardinali (ventotto è anche la somma dei primi sette numeri primi e simbolizza la rivoluzione lunare).

Nella sua villa di Tivoli Adriano aveva fatto costruire sicuramente una sala la cui volta riproduceva il cielo con le stelle e i segni dello zodiaco e qualcuno ipotizza che lo stesso Teatro Marittimo di Villa Adriana, solcato da un canale circolare che simboleggia l'Oceano Primordiale, contenesse al centro dell'isola un baldacchino a dodici supporti, sormontato da una cupola che aveva il ruolo di planetario. Ricordiamo inoltre la volta celeste dipinta che sovrastava il trono nel Palazzo di Domiziano e il Septizodium, fatto costruire da Settimio Severo e definitivamente abbattuto nel XVII secolo. Quest'ultimo monumento astronomico, ai piedi del Palatino, doveva rappresentare una replica delle dimore celesti ed era simbolicamente ornato di sette rotonde con fontane e statue delle sette divinità planetarie, in mezzo alle quali si ergeva la figura dell'imperatore come Dio Sole.

     

Cupole rotanti

Volte che riproducevano il cielo e ne imitavano la rotazione diurna per mezzo di ingegnosi meccanismi idraulici, erano sicuramente in uso presso i romani. Lo storico latino Svetonio (ca. 70-140 d.C.) nel libro dedicato a Nerone nelle "Vite dei Cesari'" ci parla esplicitamente di un dispositivo di questo genere, ornato di rappresentazioni zodiacali e costellazioni dipinte, nella sala principale ottagonale della Domus Aurea. Nel 66 d.C. Nerone vi invitò Tiridate, fratello del re dei Parti, e nei secoli successivi divenne una prerogativa tradizionale dei re sassanidi possedere una sala del trono sormontata da una cupola rotante a imitazione del firmamento.

Di un altro congegno girevole ci dà testimonianza Varrone nel "De Re Rustica” (III libro, 37 a.C.), che nella sua Voliera di Cassino aveva fatto costruire un colonnato sormontato da una cupola, al cui interno era simulata la rotazione di Lucifero durante il giorno e dell'astro Vespero durante la notte per indicare le ore. L'acqua, gli uccelli, gli alberi e i fiori circostanti erano presenti nell'edificio per simboleggiare i diversi elementi dell'universo.

 

 

Scheda autore

Giangiacomo Gandolfi. Comunicatore scientifico freelance e astrofisico, si è laureato in Fisica a Roma con una tesi sulla ricerca osservativa delle nane brune. E' coautore del libro Il Secondo Big Bang (CUEN, 2000), cui viene presentata per la prima volta al grande pubblico la storia dei lampi gamma. Si occupa anche di museologia, musica, letteratura e storia della scienza. Attualmente è ricercatore al CNR di Roma nell'ambito del programma Beppo-Sax.

 

 


Sommario

La Patera di Parabiago