Cosa
è esattamente un planetario? Secondo l'autorevole
definizione dell'Enciclopedia
Britannica, con tale nome si indica "un congegno per
riprodurre un cielo artificiale” ma nel corso dei secoli questo
obiettivo è stato raggiunto con una molteplicità di tecniche
sorprendente. Il planetario, come oggi lo conosciamo è una
macchina elettrica e meccanica che proietta su una cupola
emisferica sole, luna, stelle e pianeti, simulando con grande
efficacia i moti apparenti. Non sempre la riproduzione del cielo
stellato e dei fenomeni astronomici è stata ottenuta con tecniche
“proiettive”, che anzi sono una realizzazione dei primi anni
del XX secolo; vedremo come dalle prime sfere armillari, globi celesti e soffitti o cupole dipinte si sia giunti
all'ideazione di congegni sempre più sofisticati e
anche esteticamente pregevoli come le grandi "orreries"
e i planetari Zeiss, Spitz e Goto. "Planetario" non è
solo il nome dello strumento utilizzato per ricreare le meraviglie
e le complessità del cielo
notturno, ma anche la denominazione dell'istituto e dell'edificio
(per lo più emisferico) che lo ospitano. Questo centro di cultura
astronomica ha come principale obiettivo quello di diffondere con
un appropriato programma educativo la conoscenza del cielo e
dell'universo tra adulti e bambini. Stiamo parlando, dunque, di
uno strumento didattico dal forte impatto emotivo e spettacolare,
sebbene alcuni dei suoi lontani antenati abbiano avuto
un’utilizzazione più specificatamente scientifica o addirittura
un significato religioso.
ANTICHE
RIPRODUZIONI DELLA VOLTA CELESTE
Iconografia
astrale
Le
prime rappresentazioni iconografiche di fenomeni astronomici
risalgono alla preistoria (basti qui ricordare alcune ossa incise,
risalenti al Paleolitico Superiore, con sequenze di incisioni che
sembrano raffigurare l’evoluzione delle fasi lunari), ma prima
di trovare una veduta d'insieme della volta celeste di cui sia
rimasta testimonianza non frammentaria, dobbiamo aspettare il I
sec. d.C. E’ il caso di alcuni soffitti egiziani di epoca
tolemaica tra cui il celebre Planisfero di Denderah del Tempio di
Hathor, di cui esiste una versione di forma circolare al Louvre e
una rettangolare ancora nel pronao dell'edificio. Tipico prodotto
del sincretismo ellenistico, questa riproduzione piana del cielo
stellato alterna costellazioni greche ad asterismi tipicamente
egiziani. Altri soffitti "celesti" antichi ricordati in
letteratura ma non sopravvissuti fino ai nostri giorni sono quelli
del Tempio di Tyche a Delo (II sec. a.C.) e delle Terme di
Costantino a Costantinopoli, nonché alcuni esempi di volte
affrescate a Roma, di cui si parlerà estesamente più avanti.
Sfere
celesti
Tra
gli strumenti astronomici dell’antichità, la sfera celeste,
inventata intorno al VI sec. a.C. forse da Anassimandro o Talete,
era uno dei più frequentemente utilizzati. Ne esistevano fin
dall’inizio versioni “piene”, dette globi celesti, e
rappresentazioni ad armatura metallica, dette sfere armillari (dal
latino armilla, “braccialetto, anello”). In ambedue erano
riportati i principali cerchi celesti equatore, tropici ed
eclittica, ma solamente i globi erano ornati con le figure
zoomorfe o antropomorfe delle costellazioni, dipinte sulla
superficie. Il celebre astronomo greco Eudosso, verso il 375 a.C.,
fissò le immagini già esistenti e vi aggiunse i paralleli, i
coluri e i dodici segni zodiacali. I globi potevano ruotare sul
loro asse riproducendo il moto di rotazione diurna e permettevano
spesso di misurare l’altezza di stelle e pianeti
sull’orizzonte o di calcolare la posizione del sole e della luna
tra le costellazioni dello zodiaco. Le sfere celesti più citate
del modo classico sono quella di Lucullo, proveniente da Sinope e
chiamata Sfera di Billaros, e quella di Archimede, riportata a
Roma dal console Marcello al suo ritorno da Siracusa nel 212 a.C.
e deposta nel Tempio della Virtù presso Porta Capena. Secondo il
matematico Pappo di Alessandria, il grande scienziato siracusano
fu anche l’autore di un saggio ormai perduto sulla costruzione
di questi globi, la "Sferopea".
Non
si è conservato alcun esemplare di antica sfera astronomica
precedente al periodo imperiale, sebbene ne esistesse ancora una
nell'XI sec. d.C. Possiamo comunque farcene un'idea grazie alla
sfera di marmo dell’Atlante Farnese custodito al Museo Nazionale
di Napoli e destinato probabilmente a decorare la biblioteca di
Villa Adriana. Il globo, di 2 metri di circonferenza, risale a un
modello della seconda metà del I sec a.C. ed è ricoperto da 40
costellazioni eseguite a rilievo, con la maggior parte dei
personaggi vista di dorso. I diversi paralleli, i coluri e la
fascia intorno all'eclittica risultano fortemente aggettanti.
Un'altra preziosa sfera romana, in bronzo, è custodita al Museo
di Mainz.
Primi
planetari meccanici
A
quanto sembra, gli specialisti della Sferopea avevano creato degli
strumenti ben più sofisticati delle sfere: i planetari meccanici,
che riproducevano, oltre al movimento delle stelle, anche quello
del sole, della luna e dei cinque pianeti conosciuti. Tra questi
congegni piuttosto misteriosi e confusamente descritti ricordiamo
l’orologio anaforico di Vitruvio (rimangono frammenti di un
esemplare il cosiddetto Disco di Salisburgo), precursore dell'Astrario
del XV sec. e in grado di mostrare il cammino quotidiano del sole
e la levata e il tramonto delle varie stelle in rapporto allo
zodiaco. Tra i planetari meccanici più famosi segnaliamo quello
di Archimede (anch’esso bottino di guerra del console Marcello),
i dispositivi idraulici di Ctesibio di Alessandria (III sec. a.C.)
e il congegno di Posidonio costruito verso l’87 a.C. A proposito
della macchina di Archimede, alcuni parlano di un meccanismo
bronzeo, Claudiano di una sfera di vetro. In generale molti
scrittori dell’antichità vedevano questo oggetto come la prova
che il cosmo doveva essere opera di un divino creatore: dal
momento che il planetario del grande siracusano aveva avuto
bisogno di un creatore, allora l’universo stesso aveva bisogno
di un artefice. Cicerone rovesciò l'argomento per mostrare che,
come il cosmo aveva avuto un divino creatore, così Archimede
doveva essere stato divino per poterne riprodurre i movimenti.
Quanto al congegno di Posidonio, visto e forse acquistato dallo
stesso Cicerone a Rodi, doveva essere diffuso in tutta l'area del
Mediterraneo. Con tutta probabilità la cosiddetta Macchina di
Antikitera, un meccanismo di bronzo fortemente corroso e composto
da una trentina di ruote dentate scoperto all'inizio del secolo a
bordo di una nave greca affondata intorno al 75 a.C., non è che
un esemplare di questo planetario. La macchina, in grado di
mostrare la posizione dei corpi celesti su una serie di quadranti,
rappresenta la prima evidenza fisica di un meccanismo metallico
avanzato.
Architettura
e cieli simbolici
Ancora
una volta, per trovare in età classica realizzazioni
architettoniche che in qualche modo prefigurino i moderni
planetari, dobbiamo rivolgerci a edifici romani. Nelle antiche
tombe egizie il cielo è rappresentato su superfici piane e il
tholos ellenico, circolare, ha purtuttavia un tetto a cono che
rende difficoltosa una lettura del complesso architettonico in
chiave cosmologica. Dagli Etruschi, invece, i Romani apprendono
l'arte della volta e cominciano a costruire grandi cupole per
rappresentare cieli più o meno simbolici. L'esempio più celebre
e quello del Pantheon, un vero emisfero tanto alto quanto largo e
sormontato da una cupola con apertura centrale di circa trenta
piedi, l'oculus, che mette in comunicazione diretta con il
firmamento. Iniziato nel 27 a.C. da Agrippa e portato a compimento
con profondi rimaneggiamenti per ordine di Adriano dal 118 al 125
d.C., il Pantheon suggerisce con tutta evidenza l'idea del
movimento circolare del cielo. Le nicchie lo dividono in sedici
zone, come avviene nel cielo etrusco; i cinque ordini di
cassettoni sono separati da ventotto nervature, ossia sette
pianeti moltiplicati per quattro punti cardinali (ventotto è
anche la somma dei primi sette numeri primi e simbolizza la
rivoluzione lunare).
Nella
sua villa di Tivoli Adriano aveva fatto costruire sicuramente una
sala la cui volta riproduceva il cielo con le stelle e i segni
dello zodiaco e qualcuno ipotizza che lo stesso Teatro Marittimo
di Villa Adriana, solcato da un canale circolare che simboleggia
l'Oceano Primordiale, contenesse al centro dell'isola un
baldacchino a dodici supporti, sormontato da una cupola che aveva
il ruolo di planetario. Ricordiamo inoltre la volta celeste
dipinta che sovrastava il trono nel Palazzo di Domiziano e il
Septizodium, fatto costruire da Settimio Severo e definitivamente
abbattuto nel XVII secolo. Quest'ultimo monumento astronomico, ai
piedi del Palatino, doveva rappresentare una replica delle dimore
celesti ed era simbolicamente ornato di sette rotonde con fontane
e statue delle sette divinità planetarie, in mezzo alle quali si
ergeva la figura dell'imperatore come Dio Sole.
Cupole
rotanti
Volte
che riproducevano il cielo e ne imitavano la rotazione diurna per
mezzo di ingegnosi meccanismi idraulici, erano sicuramente in uso
presso i romani. Lo storico latino Svetonio (ca. 70-140 d.C.) nel
libro dedicato a Nerone nelle "Vite dei Cesari'" ci
parla esplicitamente di un dispositivo di questo genere, ornato di
rappresentazioni zodiacali e costellazioni dipinte, nella sala
principale ottagonale della Domus Aurea. Nel 66 d.C. Nerone vi
invitò Tiridate, fratello del re dei Parti, e nei secoli
successivi divenne una prerogativa tradizionale dei re sassanidi
possedere una sala del trono sormontata da una cupola rotante a
imitazione del firmamento.
Di
un altro congegno girevole ci dà testimonianza Varrone nel
"De Re Rustica” (III libro, 37 a.C.), che nella sua Voliera
di Cassino aveva fatto costruire un colonnato sormontato da una
cupola, al cui interno era simulata la rotazione di Lucifero
durante il giorno e dell'astro Vespero durante la notte per
indicare le ore. L'acqua, gli uccelli, gli alberi e i fiori
circostanti erano presenti nell'edificio per simboleggiare i
diversi elementi dell'universo.
Scheda
autore
Giangiacomo
Gandolfi. Comunicatore scientifico freelance
e astrofisico, si è laureato in Fisica a Roma con
una tesi sulla ricerca osservativa delle nane brune.
E' coautore del libro Il Secondo Big Bang (CUEN,
2000), cui viene presentata per la prima volta al
grande pubblico la storia dei lampi gamma. Si occupa
anche di museologia, musica, letteratura e storia
della scienza. Attualmente è ricercatore al CNR di
Roma nell'ambito del programma Beppo-Sax. |
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Sommario |
La
Patera di Parabiago |
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